19 Settembre 2024
Ambiente rinnovabili eoliche

Ambiente rinnovabili eoliche

La decisione di contenere l’aumento della temperatura globale a +1,5 gradi rispetto all’era preindustriale è stato un passo importante (sei anni prima, a Parigi, la barriera era stata lasciata a +2 gradi). La crisi in Ucraina non deve diventare l’alibi per cancellare le tracce dell’addio annunciato al carbone

Sono cominciati ieri a Bonn i negoziati che porteranno alla ventisettesima Conferenza annuale delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Cop27, tra cinque mesi, a Sharm el-Sheikh). Ma c’è una domanda che ci insegue dal 24 febbraio: l’invasione russa dell’Ucraina è riuscita, oltre a portare la guerra nel cuore dell’Europa e destabilizzare le economie mondiali, a fermare quella rivoluzione ecologica che aveva — con fatica e fiducia — raggiunto una piattaforma di lavoro condivisa?
Il passaggio tra il 2021 e il 2022 sembrava aver accompagnato i governi occidentali, e non solo, verso un percorso irreversibile di rinnovamento dei modelli di sviluppo: più orientati all’inclusione sociale, alla redistribuzione delle risorse, a una strategia di crescita sostenibile che — nell’interesse di tutti — non può limitarsi ai
Paesi industrializzati. Nessuno immaginava che questo percorso sarebbe stato facile, una corsa lungo un rettilineo, ma il 13 novembre a Glasgow, città della Cop26, ben pochi si erano salutati senza dirsi d’accordo almeno sulla raggiunta consapevolezza di una necessità comune.
Agire, insieme, per il clima. Che vuol dire direttamente per noi e non vagamente per il Pianeta. Perché il Pianeta, lo ha già dimostrato, sa sopravvivere all’estinzione dei suoi abitanti, anche dei più audaci e smisurati.
Dopo una storia di incontri Onu chiusi tra veti e diffidenza, quell’intesa era stata il frutto di un lavoro preparatorio guidato dall’Italia e riconosciuto a livello internazionale. Il vertice nella città scozzese era stato infatti preceduto da un summit a Milano, dove, tra le altre cose, «Youth4climate» aveva proposto il coinvolgimento nelle decisioni finali delle nuove generazioni, portatrici di un’agenda spesso più informata e sensibile della nostra.
Del Piano sottoscritto a Glasgow abbiamo sottolineato spesso le fragilità, dovute in gran parte ai meccanismi della Cop che prevedono l’unanimità dei 196 Paesi seduti ai tavoli della convenzione. E abbiamo dubitato dei compromessi strappati all’ultimo minuto lungo il fronte asiatico. Ma a guardarli ora — tra le incertezze di questo giugno «tropicale» in pianura padana — capiamo quanto fossero risultati essenziali, da non disperdere. La decisione di contenere l’aumento della temperatura globale a +1,5 gradi rispetto all’era preindustriale è stato un passo importante (sei anni prima, a Parigi, la barriera era stata lasciata a +2 gradi).
Ora la conferenza tecnica di Bonn risentirà a più livelli delle fratture che in questi mesi si sono approfondite. Ma proprio per questo il summit sarà un punto di passaggio decisivo: sarà una prova per capire quanto i governi mondiali, nelle loro strutture profonde, vedano nel clima una priorità non in discussione. L’andamento dei prezzi delle materie prime — e segnatamente delle fonti fossili, quelle che producono CO2 — è il primo indice da interpretare per non sottovalutare quanto stiamo tutti rischiano, anche in questo campo, a causa dell’aggressione di Mosca.
Il Corriere della Sera è tornato a riflettere sull’ambiente con la terza edizione di Pianeta 2030, che ci ha visti in campo per due giornate, domenica e ieri, tra sala Buzzati e i parchi milanesi. Lo abbiamo fatto con un desiderio: quello di allontanare dalla narrazione del cambiamento climatico la cappa opprimente della paura. Che ci fa sentire inadeguati, in ritardo, condannati, deboli. Il confronto sull’ecologia, in Italia, ha sempre assunto toni cupi, di contrapposizione, quasi di minaccia.
Noi sappiamo che le catastrofi ambientali, e le migrazioni forzate che andranno a generare, sono un flagello per l’umanità intera. Gli esempi sono infiniti, dalle carestie in Africa alle ondate di caldo senza precedenti in India e Pakistan, fino ai piccoli Stati sugli isolotti che verranno inghiottiti se quel traguardo del +1,5 verrà dimenticato tra le macerie di altre battaglie. Da Milano a Glasgow, però, si andava affermando un’altra strategia possibile, virtuosa. Fondata sull’impegno interno dei Paesi più industrializzati e sulla loro volontà di garantire energia pulita a quanti, in altri Continenti, non possono rinunciare alla battaglia primaria di una crescita anti-povertà. Strategia alimentata anche dalla forza dei più giovani che, ormai uscita dal solco delle proteste e basta, puntava alle stanze dove si scrivono i programmi. E sopra tutto e tutti prendeva finalmente forma l’obiettivo numero uno: la lotta per l’ambiente si stava mostrando come un moltiplicatore di opportunità.
Ha avuto ragione ieri John Kerry, inviato della Casa Bianca per il clima, ad avvertire che la crisi in Ucraina non deve diventare l’alibi per cancellare le tracce dell’addio annunciato al carbone (oggi circa il 40% dell’energia arriva dal carbone che produce oltre il 70% di emissioni di gas serra). Siamo a un incrocio complesso, quello che sapremo fare — o non fare — in questa stagione dirà se la rivoluzione verde ha futuro. Anzi: se ha presente. La proposta italiana di un tetto ai prezzi del gas sarà finalmente discussa a Bruxelles. Significa porre le basi per un ridisegno della produzione di energia della quale l’Unione Europea ha bisogno. Con la consapevolezza che questo passo, dirompente, non potrà essere tentato a scapito dei luoghi nel mondo dove l’elettricità non c’è ancora del tutto.
Possiamo rassegnarci a una mappa globale che appare di nuovo un tracciato di recinti più che uno spazio aperto di scambi e possibilità? La paralisi delle organizzazioni multilaterali ha creato un vuoto di potere e di azione, si è chiusa la vecchia stanza di compensazione di conflitti fisici e virtuali. Nuove idee di leadership possono crescere in Europa. E in un’Italia non marginale. È questo il senso della transizione: un processo flessibile, dove contano le idee. Che possono essere sfidate, migliorate, aumentate. A differenza dei dogmi.

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