La guerra Israele-Hamas e l’incertezza per il dopo Raisi in Iran complicano i piani della diplomazia in Medio Oriente
La morte del presidente iraniano. E poi il procuratore del tribunale dell’Aia (non riconosciuto da Usa e Israele) che chiede un arresto di Benjamin Netanyahu e Yahya Sinwar destinato a restare sulla carta. Gli eventi traumatici delle ultime ore sembrano poter fossilizzare ancor più le posizioni radicali dei principali attori del conflitto mediorientale: la decisione del procuratore della Corte penale internazionale che mette sullo stesso piano il premier israeliano e il leader dell’ala militare di Hamas costringe anche Benny Gantz, principale oppositore di Netanyahu, l’uomo del futuro nell’ottica Usa, a solidarizzare col capo del governo mentre Ali Khamenei promette che Raisi verrà sostituito da un altro leader duro quanto lui. E magari, si potrebbe aggiungere, più capace e competente, vista la diffusa ostilità nei confronti del presidente morto nell’incidente elicotteristico.
Ma i fatti traumatici possono sempre aprire qualche interstizio che, se sfruttato, può portare a correzioni di rotta più o meno significative: la vecchia gerarchia religiosa e quella militare dei pasdaran fin qui hanno usato il pugno di ferro ma non possono non rendersi conto di essere assediate in modo sempre più soffocante da una società iraniana giovanissima, dinamica, vogliosa di aprirsi al mondo, insofferente.
Quanto alla guerra a Gaza, negli interstizi si sta muovendo in questi giorni soprattutto Jake Sullivan. A Gerusalemme il consigliere per la sicurezza nazionale di Joe Biden gioca la carta saudita, con la bozza di accordo strategico quasi pronta: riconoscimento di Israele e spinta verso la soluzione del conflitto palestinese con la creazione di due Stati. Netanyahu può continuare con la linea dura, senza piani per il futuro di Gaza, forte anche del fatto che, dopo il massacro di Hamas del 7 ottobre scorso, in Israele sono rimasti in pochi ad essere favorevoli alla creazione di uno Stato palestinese.
Così facendo, però, diventa sempre più schiavo della destra religiosa e deve sperare in una vittoria di Trump, alleato capriccioso e imprevedibile. Netanyahu non può non essere consapevole che questo conflitto sta erodendo (o, addirittura, azzerando) il debito accumulato dal mondo nei confronti del popolo ebraico per secoli di persecuzioni e per la Shoah. E la Corte dell’Aia che lo mette sullo stesso piano dell’architetto della strage all’origine di questo conflitto, se nell’immediato suscita indignazione (compresa quella di Biden che dà, su questo, piena solidarietà a Bibi) rappresenta un altro tassello in questo processo di erosione dell’immagine di Israele nel mondo.
Per Biden la questione mediorientale è più importante per il valore che riveste ai fini della sua eredità politica presidenziale — da sempre grande sostenitore di Israele e anche dei due Stati, non riesce più a farsi ascoltare da quel governo — che nella prospettiva della sua campagna elettorale. Basta ascoltare un comizio di Trump per capire quali sono i fianchi scoperti del presidente democratico, oltre a quello dell’età molto avanzata. In primo luogo l’onda dell’immigrazione clandestina presentata dal suo rivale come il disegno dei Paesi di mezzo mondo di svuotare prigioni e manicomi mandando negli Usa eserciti di criminali e persone fuori di senno.
C’è, poi, l’altra faccia della crescita economica di un’America che è riuscita ad evitare la recessione e ad avere un bassissimo numero di disoccupati: prezzi ancora troppo alti che erodono il potere d’acquisto dei salari mentre i tassi d’interesse sui mutui saliti in poco tempo dal 2 al 7 per cento sono per molte famiglie un cappio al collo. Nell’attaccare Biden, Trump ha molto più successo quando sostiene che, per via dell’inflazione, il patrimonio degli americani si è ridotto di un quinto da quando c’è il suo avversario alla Casa Bianca, che quando parla di Gaza o di Ucraina.
In realtà è possibile che sul voto finisca per pesare anche una variabile mediorientale: l’«Intifada» dei movimenti filopalestinesi delle università americane dovrebbe placarsi con la fine dell’anno accademico, ma c’è l’incubo di una contestazione stile 1968 alla Convention democratica di Chicago. Allora fu la guerra del Vietnam a provocare la ribellione dei giovani progressisti. Nessuno sa se e fino a che punto Gaza possa diventare il Vietnam del 2024, ma per Biden è sicuramente essenziale arrivare ad agosto con un quadro almeno in parte stabilizzato.
Netanyahu per adesso appare orientato a fare la scelta opposta, spinto dai suoi calcoli di sopravvivenza politica, dalla pressione della destra, dall’ostinazione dei coloni che hanno occupato i territori palestinesi e, come detto, dalla scarsa popolarità della soluzione dei due Stati.
Ma, come ha spiegato lucidamente il storico israeliano Yuval Noah Harari sul Washington Post, l’alternativa ai due Stati è lo Stato unico che relega i palestinesi in una posizione di cittadini di serie B, con ruoli e diritti subordinati. E se, continuando a bombardare zone popolate da civili, si finisce inevitabilmente per alimentare l’odio dei giovani palestinesi e il reclutamento di ribelli, il ritorno alla logica dello Stato unico può mantenere perennemente aperta la fabbrica delle rivolte. Col rischio, per l’esercito di Israele, di dover identificare i bersagli della lotta contro il terrorismo con fasce sempre più vaste della popolazione.
In Iraq e in Afghanistan gli americani hanno imparato che in guerra non ti devi chiedere solo quanti terroristi uccidi ma anche quanti ne crei come conseguenza della tua repressione. E Avril Haines, direttrice nazionale dei servizi di intelligence degli Stati Uniti, ebrea, ha previsto già mesi fa che «il conflitto di Gaza avrà un impatto generazionale» sullo sviluppo del terrorismo.