Tra i segnali positivi la prudenza e responsabilità del gruppo dirigente a Washington; la «clausola di contenimento» dell’escalation militare esistente tra Usa e Mosca; la cornice temporale di un consesso come il G20 che ha mostrato di poter funzionare come moderatore ed equilibratore su scala globale
L’«incidente polacco» ha dimostrato che, pur nella gravità del conflitto ucraino, esiste un freno di emergenza. È stata una notte di paura per l’Europa e per il mondo. Ma l’accertamento dei fatti è stato rapido, l’ipotesi che si trattasse di un attacco russo a un Paese Nato presto smentita, e comunque non strumentalizzata per innescare una immediata ritorsione; nonostante la pressione iniziale delle nazioni più esposte alla minaccia militare di Mosca, a partire dalla Ucraina stessa e dalla Polonia. L’esito di questa notte ci dice dunque che il rischio di un’escalation è tenuto in seria considerazione, ed è per ora sotto controllo. È una buona notizia. E dipende da tre fattori. Il primo è la prudenza e responsabilità del gruppo dirigente a Washington. Jake Sullivan, consigliere per la Sicurezza nazionale, Antony Blinken, segretario di Stato, e Joe Biden, il presidente, non sono «falchi» in cerca di un pretesto per lanciare una guerra contro la Russia, non sono cultori del «regime change» che puntano a far fuori Putin, magari senza neanche chiedersi chi dopo di lui. Non si tratta insomma di un’amministrazione «imperiale»; anzi, è pur sempre quella che si è ritirata dall’Afghanistan.
Una ritirata che forse ha illuso Putin che la Nato fosse davvero diventata obsoleta e stanca. Il risultato favorevole a Biden nelle elezioni di midterm è perciò un bene per l’Europa: ha consolidato una presidenza non isolazionista, pronta a prendersi le sue responsabilità di guida dell’Occidente, ma nemmeno agitata da intenti revanscisti. La pressione discreta in corso da settimane sulla dirigenza ucraina perché cominci a parlare di pace ha prodotto l’intervento di Zelensky al G20, le cui dieci condizioni potranno anche essere considerate oggi troppo dure per i russi, ma sono comunque l’offerta di un tavolo negoziale, un modo per non lasciare la parola solo alle armi. Naturalmente nessuno può pretendere che i governanti di Kiev, dopo aver perso sui campi di battaglia la loro migliore gioventù, dopo aver subito devastazioni inimmaginabili in una guerra che si svolge interamente sul territorio ucraino, che uccide civili soltanto ucraini e distrugge soltanto l’economia e le infrastrutture ucraine, possano accettare un’amputazione territoriale e uno stato di vassallaggio come era dall’inizio nelle intenzioni di Mosca. Forse vale la pena di ricordare che se a uccidere i due agricoltori polacchi sono stati davvero — come pare probabile — i resti di un ordigno della contraerea ucraina, quel colpo è stato sparato per difendersi da una raffica di cento missili lanciati dai russi per costringere alla fame, al freddo e al buio milioni di civili ucraini. Finché questa aggressione continuerà, la pace sarà inevitabilmente condizionata dalla guerra, dalle operazioni sul terreno, dai confini disegnati dalle avanzate e dalle ritirate delle truppe. Gli ucraini stanno combattendo per se stessi, non per procura o in conto terzi, e stanno pagando un prezzo enorme. Fingere di ignorare questa verità serve solo alla propaganda del Cremlino che, avendo fatto dell’Ucraina un deserto, ora vorrebbe chiamarlo pace.
Il secondo motivo di conforto è che evidentemente esiste tra Washington e Mosca una qualche «clausola di contenimento» dell’escalation militare. Non era così all’inizio del conflitto, quando mancava qualsiasi canale di comunicazione tra le due capitali, e i rispettivi governi si basavano soltanto sulle informazioni delle loro intelligence. Ora quei contatti ci sono e sono stati anche ufficialmente confermati. È come se fosse scattato un antico riflesso da «guerra fredda», basato su una logica di deterrenza reciproca. Questo vuol dire che anche a Mosca, nonostante l’intenso strillare dei tanti falchi, si è consapevoli dei rischi che comporterebbe una tracimazione dell’avventura militare in cui, imprudentemente, Putin ha lanciato una forza militare convenzionale chiaramente non all’altezza del compito.
Il terzo elemento positivo è che l’«incidente polacco» è avvenuto nella cornice temporale di un consesso come il G20 che ha mostrato di poter funzionare come moderatore ed equilibratore su scala globale. Soprattutto, la riunione di Bali ha evitato il rischio più serio: una crescente contrapposizione «the West against the Rest», l’Occidente contro tutti. Anzi, i due o tre mondi rappresentati al G20 si sono parlati. La scena del lungo incontro di Xi Jinping con Biden, la comune messa in guardia contro il rischio dell’arma nucleare, la contrarietà alla guerra espressa nell’adesione al documento finale da parte dell’India, l’assenza di Putin e il ruolo marginale svoltovi dal suo inviato Lavrov, raccontano di potenze troppo impegnate nella sfida della crescita e del benessere per essere interessate a un Risiko bellico su scala mondiale. Questo è molto importante, e anche qui è positivo che l’amministrazione Biden abbia ridotto il tasso di retorica sinofoba di quella precedente. È il Pacifico il luogo di incubazione più pericoloso di un eventuale conflitto mondiale. È dunque vitale evitare che l’Ucraina, che si affaccia sul Mar Nero, finisca per fare da miccia, o da detonatore. Ma dopo il G20 si può dire che il clima globale è migliorato, e dunque quel conflitto è ora più «locale». Potrebbe rivelarsi un bene anche per gli ucraini, oltre che per il mondo intero.