Commissione di alto livello, rispetto degli impegni presi con l’Assemblea e un programma con tutte le misure da adottare
In Europa, dopo le elezioni, il dibattito si concentra sulle rivalità e le possibili alleanze in seno al nuovo Parlamento Ue e sulle nuove nomine che si dovranno fare. Ma non va dimenticato che il responso delle urne non serve a formare un vero e proprio governo dell’Unione europea, a motivo della natura multipolare e non univoca del «governo» Ue (come spiegato su queste colonne, qualche settimana fa). Quindi, dobbiamo essere consapevoli che la maggioranza concordata fra i gruppi parlamentari si manifesterà essenzialmente quando occorrerà votare le future normative Ue o esercitare il controllo politico sulla Commissione europea.
La funzione legislativa svolta dal Parlamento alla pari con il Consiglio Ue (composto, per i 27 paesi, dai ministri competenti sulla materia in oggetto), riguarda circa l’80% degli atti Ue, perché l’adozione di quelli più sensibili resta nelle mani del Consiglio, vale a dire degli Stati. Nei compiti di controllo politico echeggia il rapporto di fiducia fra un’assemblea rappresentativa dei cittadini e un governo. In sintesi, comprende la nomina di chi presiede la Commissione e dei suoi membri con il voto della maggioranza dei deputati europei, la vigilanza sull’operato dei commissari (interpellanze, audizioni, puntigliosa verifica sulla gestione dei fondi del bilancio Ue), la facoltà di far dimettere l’intera Commissione con una mozione di censura
Nonostante queste prerogative, è indubbio che l’architettura Ue sia disequilibrata a scapito del Parlamento europeo. Per rafforzarne il ruolo, la via maestra è la riforma dei trattati su cui si regge l’Unione: ma dipende dall’assenso unanime degli Stati, i quali hanno sempre centellinato i passi in tal senso. Di fronte a tempi lunghi e al probabile esito deludente, il neoeletto Parlamento ha adesso un’opportunità più unica che rara di guardare oltre le questioni immediate e di puntare a risultati di valenza istituzionale.
Infatti, siamo entrati nel vivo del processo d’insediamento della prossima Commissione, incardinato sul serrato connubio decisionale fra Parlamento europeo e governi nazionali. Le proposte delle persone da nominare spettano solo a quest’ultimi: il Consiglio europeo (cioè i leader degli esecutivi nazionali) sceglie il nome del presidente e poi, ogni governo indica un commissario. Però il Parlamento comanda il semaforo: senza i suoi vari placet la Commissione non entra in carica. Dunque, per qualche mese, i deputati europei saranno in una fase di nodale peso e influenza, perché chiamati a far uso del potere più autorevole e capillare che i trattati Ue conferiscono loro. Perché allora, in coerenza con i canoni della democrazia, non avvalersene per raggiungere un trittico di mete, di cui due di cruciale portata innovatrice? Potrebbe essere l’opzione della maggioranza che il Parlamento si accinge a esprimere, ma pure di un esteso schieramento transpartitico.
La prima meta è di garantire la migliore qualità alla compagine della Commissione: va accentuato il rigore dell’esame, che compete al Parlamento, sull’idoneità all’incarico per presidente e membri della Commissione. I trattati Ue esigono che siano «scelti in base alla loro competenza generale e al loro impegno europeo e tra personalità che offrono tutte le garanzie di indipendenza». Il Parlamento ha carta bianca per regolare le modalità valutative e fissare il livello dell’asticella. È suo preciso dovere escludere (in misura superiore al passato) chi non risponde appieno ai requisiti e chi concorre per un ulteriore mandato, ma non ha soddisfatto nel precedente. Dall’esterno potremo giudicare, visto che l’apposito parere che motiva il responso, è pubblicato in piena trasparenza.
La seconda meta incide sul monopolio dell’iniziativa legislativa, riservato dai trattati Ue alla Commissione. Se aveva una logica alla genesi dell’integrazione comunitaria, oggi è anacronistico. Ora bisogna esigere dagli aspiranti commissari l’impegno solenne a far proprio un disegno normativo preparato nell’ambito del Parlamento europeo e a presentarlo quale formale proposta della Commissione (così da rispettare i trattati in vigore, senza doverli modificare). Al fine di rendere vincolante l’impegno, lo si può inserire fra le clausole dell’accordo interistituzionale stipulato, a inizio legislatura, per disciplinare i rapporti funzionali fra Parlamento, Consiglio e Commissione. A voler procedere con cautela, i testi di cui all’impegno potrebbero essere quelli sostenuti da almeno un gruppo parlamentare o da un numero di deputati Ue pari al minimo per costituire un gruppo.
La terza meta discende dalla considerazione che la maggioranza nel Parlamento europeo andrebbe costruita intorno a un puntuale programma di azione da tradurre in misure. In realtà, tale programma è scritto dalla Commissione e poi sottoposto al Parlamento. Per giunta, l’esperienza mostra come, sui singoli atti da deliberare, la maggioranza non sia affatto stabile, mutando rispetto alle originarie convergenze fra i partiti. A volte, cambia davanti alla natura specifica di alcuni provvedimenti: classiche le divisioni su impostazioni più liberali o più sociali ovvero ambientaliste o pro-industriali. Altre volte, possono prevalere impulsi di matrice domestica: ne è un esempio, in aprile, il mancato supporto di quasi tutti i deputati Ue italiani al nuovo Patto di stabilità. Invece, gioverebbe all’amalgama di una seria maggioranza parlamentare la piena condivisione con la Commissione dei lavori di elaborazione del programma legislativo e anche su questo andrebbe ottenuto un impegno chiaro, da sancire nell’accordo interistituzionale.