È necessario il controllo dei confini, la «condivisione» fra i Paesi e avere procedure più efficienti
Durante la campagna elettorale, Ursula von der Leyen si era detta pronta a collaborare con chiunque fosse a favore dell’Europa, dello Stato di diritto e dell’Ucraina. Il primo impegno era essenzialmente rivolto a escludere le forze euroscettiche. Dopo la rielezione di von der Leyen, è opportuno riflettere più a fondo sul significato del termine «pro-Europa».
Essendo stata votata a maggioranza, la neo-presidente indossa di fatto un doppio cappello: da un lato, quello di guida della istituzione che deve tutelare l’interesse generale dell’Unione (la Commissione), dall’altro, quello di leader politico impegnato a realizzare un programma con venature «partigiane», in linea con gli orientamenti dei partiti che l’hanno eletta. In una certa misura, si tratta della medesima duplicità che contraddistingue la posizione dei leader di governo nazionali. Ma a Bruxelles c’è il rischio che si crei un corto-circuito, tale per cui essere «anti-Ursula» voglia dire ipso facto essere «anti-europeo».
L’equivoco è comprensibile, visto che in passato i gruppi al di fuori della maggioranza volevano smantellare l’Unione e stavano all’opposizione anche a livello nazionale. La situazione è però progressivamente cambiata. L’idea di uscire dalla Ue è stata accantonata, l’obiettivo è ora quello di trasformare l’Unione dall’interno. Molti partiti nati come anti-Ue oggi guidano o partecipano ai governi dei loro Paesi.
Nel Consiglio siedono attualmente cinque governi facenti capo — direttamente o indirettamente — al gruppo dei Conservatori (Italia, Finlandia, Cechia, Svezia e da poco anche il Belgio) mentre altri quattro sono collegati al gruppo dei Patrioti (Ungheria, Croazia, Slovacchia e da poco l’Olanda).
Il criterio del «cordone sanitario» usato in Parlamento per l’elezione di von der Leyen non può reggere in seno al Consiglio. I nove governi comprendono anche partiti che a Bruxelles fanno parte della maggioranza pro-Ursula (come Forza Italia, che aderisce al Partito popolare). L’istituzione più importante della Ue non può polarizzarsi in due blocchi contrapposti.
L’ evoluzione ideologica e politica della galassia euro-scettica apre spazi per la ricerca di un consenso largo sui «fondamentali» politici dell’Unione. Sarebbe un processo simile a quello avvenuto in molti Stati nazionali nella seconda metà del Novecento, con la progressiva «normalizzazione» dei partiti anti-sistema (pensiamo, in Italia, al Pci e al Msi).
Quali potrebbero essere i fondamentali politici su cui convergere? Il più ovvio ed elementare sembra in larga parte già acquisito: accettare l’esistenza della Ue e non opporsi (anzi favorire) la sua sopravvivenza. Da questa scelta di campo iniziale discendono almeno tre importanti implicazioni, sulle quali s’intravedono segnali di disponibilità.<
La prima riguarda i confini esterni. Nel nuovo contesto geo-politico, il controllo del territorio è una condizione imprescindibile per la tenuta dell’Unione, soprattutto negli ambiti dell’immigrazione e della difesa. Sappiamo che su entrambi vi sono forti divergenze fra partiti. Ma sulla necessità di una più netta ed efficace demarcazione esterna dell’Unione è possibile formare una convergenza trasversale di principio, in modo da spostare la discussione dal se al come. È legittimo avere idee diverse sull’opportunità di creare un esercito Ue. Ma se si accetta il fatto che l’Unione debba difendersi da eventuali aggressioni esterne, non si può poi negarle la disponibilità di un proprio deterrente, anche composito, che garantisca la sicurezza di tutti e ciascuno Stato membro.
La seconda implicazione riguarda le «condivisioni» fra Paesi. L’interdipendenza sempre più profonda fra le economie e le società europee richiede la predisposizione di meccanismi permanenti di solidarietà e investimenti comuni, soprattutto in situazioni di emergenza (come è stato per la pandemia). La formazione di un consenso largo sarebbe facilitata da un cambiamento di percezione. I meccanismi di condivisione finanziaria vanno presentati come forme di «ri-assicurazione»(l’Unione come assicurazione di secondo livello contro i rischi sistemici che colpiscono tutti, senza «colpa») piuttosto che come redistribuzioni fra Paesi ricchi e poveri.
La terza e più delicata implicazione riguarda l’introduzione di procedure decisionali più efficienti. Difficile discutere di questo con i Patrioti. È tuttavia possibile aprire un dialogo con i Conservatori. Durante la campagna elettorale, il loro mantra è stato quello di trasformare la Ue da un gigante burocratico a uno politico.
Come procedere in questa direzione senza una cabina di regia capace di prendere e attuare rapidamente le decisioni collettive? C’è da sperare che l’esperienza di governo faccia maturare questa consapevolezza anche fra i partiti del gruppo Ecr.
L’Unione resta ancora oggi in bilico tra fragilità esistenziale e resilienza contingente. Per superare la morsa bisogna oltrepassare i cordoni sanitari e favorire la conversione degli euro-scettici da forze anti-sistema a partiti euro-leali. In modo da mettere in sicurezza le «linee rosse» da cui dipende la stabilità politica strutturale dell’Unione.