20 Settembre 2024

ESTERI

Fonte: Corriere della Sera

Ali Ramadan Abuzaakouk-Libia

di Lorenzo Cremonesi

Il ministro degli Esteri della coalizione di milizie e forze politiche ispirate ai Fratelli Musulmani avverte: «Se così non fosse, sarebbe una violazione della nostra sovranità»

«A noi va anche bene che l’Italia assuma il ruolo di leader dell’intervento internazionale nella guerra contro le forze emergenti dell’Isis in Libia. Ma attenzione: occorre che qualsiasi azione militare nel Paese sia minuziosamente concordata con il nostro governo a Tripoli e le nostre forze militari sul campo. Se così non fosse, qualsiasi tipo di operazione si trasformerebbe da legittima battaglia contro il terrorismo a palese violazione della nostra sovranità nazionale». È un vero e proprio appello quello che lancia al governo Renzi il ministro degli Esteri della coalizione di milizie e forze politiche ispirate all’ideologia dei Fratelli Musulmani, Ali Ramadan Abuzaakouk. Ci riceve per quasi due ore nella lobby luminosa del Bab Al Bahar hotel, sul lungomare della capitale. Ha tempo per condividere anche le sue memorie delle vacanze giovanili, quando percorreva in autostop la nostra penisola, prima di fuggire negli Stati Uniti per evitare la persecuzione della polizia segreta di Gheddafi. Il suo messaggio comunque non cambia: «Occorre capire se l’Italia, il Paese europeo che per storia e tradizione ci è più prossimo, ora sceglie di lavorare con noi, oppure contro».

Ci può spiegare come mai restano ancora tante difficoltà per un governo di unità nazionale? Non pensa che lo scontro interno tra Tripoli e Tobruk non fa altro che aiutare la diffusione dell’Isis?

«Il problema sta nelle modalità e nello stile scelto dai due delegati delle Nazioni Unite, prima Bernardino León e adesso Martin Kobler, nel designare quel governo. Le colpe più gravi sono di León, che sin dall’inizio ci ha imposto le sue mosse, ha rifiutato il confronto e ha sempre preferito Tobruk. Un anno fa non capivamo il motivo di tanta ostilità. Poi abbiamo compreso: León lavorava per gli Emirati Arabi Uniti, che sostengono Tobruk, e adesso che ha lasciato l’Onu gli hanno persino offerto un impiego con uno stipendio di circa 50 mila euro mensili. Lo scorso autunno speravamo che Kobler, il successore, finalmente ci ascoltasse. Ma questi ha subito affermato che nulla sarebbe cambiato, anzi ha continuato con la stessa politica».

Per esempio?

«Come León, Kobler si è rimangiato la parola data. Per esempio, le prime intese prevedevano due vice-premier nel gabinetto unitario e adesso ne impongono addirittura sei. Non capiamo però come mai anche la diplomazia italiana si schieri con tanta veemenza a sostenere gli errori dei responsabili Onu».

Forse perché è l’unico gioco vero sul tavolo. Non credete anche voi nella necessità dell’unità libica?

«Certo che ci crediamo. Ma non al prezzo di accettare un finto premier e un finto gabinetto privi di alcuna legittimità. Finti leader che neppure vivono in Libia».

Lei crede che l’Isis vada combattuto con ogni mezzo?

«L’Isis è un cancro pericolosissimo per la Libia e la regione intera, che comprende l’Italia. Vorrei però aggiungere che le prime a batterlo sul campo sono state le milizie islamiche moderate. A Derna, dove le formazioni legate ai Fratelli Musulmani sono particolarmente attive, la popolazione si è ribellata e ha scacciato Al Qaeda e Isis. Il capo militare di Tobruk, è invece quel generale Khalifa Haftar che fu uomo di Gheddafi e oggi dimostra di collaborare con gli ex fedeli del dittatore, che guarda caso stanno cooperando con Isis a Sirte e le altre roccaforti del vecchio regime».

Ma l’emergenza non dovrebbe farvi superare le differenze?

«Noi siamo a favore del dialogo diretto con Tobruk, anche se continuiamo ad insistere che Haftar non può avere alcun futuro nella Libia unificata. E comunque occorre non esagerare: l’Isis resta circoscritto alla regione di Sirte».

Eppure si espande nel Sud, colpisce a Sabratha, Bani Walid, ha cellule a Tripoli e Bengasi.

«Un conto è compiere attentati e un altro il controllo territoriale. Il fatto che l’Isis sia in grado di infliggere massacri a Parigi non significa che la occupi. Le autorità francesi non sono state in grado di evitare che la loro capitale fosse vittima di attacchi gravissimi. Per noi la cosa è ancora più complessa, siamo in una situazione di grave destabilizzazione post-rivoluzionaria. In più Egitto, Emirati Arabi Uniti e altre forze regionali lavorano con i nostri nemici. Eppure, le nostre brigate di Alba Libica si stanno impegnando. Una settimana fa abbiamo subito 43 morti e 120 feriti per scacciare Isis da Sabratha».

Proprio a Sabratha potrebbero trovarsi i 4 tecnici italiani della Bonatti rapiti nel luglio scorso presso il terminale di Melita. Ha notizie?

«Ci sono contatti, negoziati. In un primo tempo si era parlato di una banda locale di criminali comuni a caccia di riscatti. Ma non ho dettagli precisi. Noi siamo comunque sempre pronti a collaborare con Roma per facilitare la loro liberazione. È nostro pieno interesse favorire le attività dell’Eni e delle altre aziende italiane in Libia».

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