Fonte: Corriere della Sera
di Giuseppe Sarcina
«La Nord Corea è un regime depravato, va isolato. Se ci attaccano non c’è altra scelta che distruggerli» così il presidente Usa all’assemblea dell’Onu
Il segno di Donald Trump sull’Assemblea generale delle Nazioni Unite: Kim Jong-un, «Rocket man», l’uomo razzo, è «in missione suicida per se stesso e il suo regime». Da oggi in poi il titolo della celebre canzone di Elton John passa alle cronache della diplomazia. Il presidente americano, lo usa come fosse un tweet di avvertimento, il più duro, alla Corea del Nord: «Gli Stati Uniti hanno una grande forza e una grande pazienza. Ma se saremo costretti a difendere noi stessi o i nostri alleati, non avremo altra scelta se non quella di distruggere totalmente la Corea del Nord». «Totalmente»: un avverbio accompagnato dal silenzio della platea.
Il leader della Casa Bianca «ringrazia» la Cina e la Russia per aver condiviso la decisione Onu di imporre altre sanzioni a Pyongyang. Ma aggiunge: «dobbiamo fare di più»; è «uno scandalo che alcune nazioni non solo continuino a commerciare con un simile regime, ma forniscano armi, sostegno finanziario a uno Stato che sta mettendo in pericolo il mondo intero».
L’attacco agli «Stati canaglia» rappresenta il nerbo dell’intervento di Trump e, in definitiva, anche della politica estera Usa. L’assunto ideologico dell’«America First» cede presto il passo alle minacce di fare a pezzi l’architettura fondata sul dialogo, faticosamente costruita da Barack Obama. «Come presidente degli Stati Uniti, metterò sempre l’America al primo posto, esattamente come ciascuno di voi fa con il proprio Paese». Tiepidi applausi. Ma subito, dopo, Trump descrive l’intero pianeta, non solo «l’America», insidiata da pericoli mortali. La Corea del Nord, certo, ma anche l’Iran: «una dittatura corrotta travestita da falsa democrazia»; «uno Stato canaglia che esporta violenza, stragi e caos… che finanzia gli Hezbollah e altri terroristi che attaccano i pacifici Paesi arabi e Israele». «The Donald» demolisce ancora una volta il protocollo nucleare con Teheran: «È uno degli accordi peggiori di sempre, un patto che mette in imbarazzo gli Stati Uniti». Il presidente sembra rimandare all’annuncio di un ripudio imminente: «Ne sentirete ancora parlare, credetemi».
Anche la lotta contro «il terrorismo islamico radicale» spinge il governo di Washington fuori dal recinto isolazionista dell’«America First». Poi ci sono le guerre croniche in Afghanistan, in Iraq, in Siria. E «il fallimentare socialismo-comunismo» che tiene insieme Cuba e il Venezuela, realtà devastate dall’eredità ideologica dell’Unione Sovietica. L’America mantiene le sanzioni nei confronti del «regime corrotto e destabilizzante» dell’Avana, così come a carico del «dittatore socialista» di Caracas, Nicolás Maduro.
L’ultimo passaggio riprende, quasi alla lettera, l’intervento del 6 luglio scorso, nella piazza Krasinski di Varsavia: «Siamo tutti chiamati al grande risveglio delle nostre nazioni, al revival del loro spirito, del loro orgoglio, dei loro popoli». Il problema, naturalmente, saranno poi gli strumenti, le scelte concrete. Il presidente francese Emmanuel Macron, per esempio, ricorda a Trump che «l’Accordo di Parigi non si tocca, ma per gli Stati Uniti la porta è sempre aperta».