Fonte: Corriere della Sera
di Franco Venturini
Il capo della superpotenza Usa e le massime gerarchie di Teheran stanno seguendo una strategia che li accomuna e che rischia di deflagrare in anticipo rispetto ai loro calcoli
Donald Trump strangola l’economia iraniana con le sue sanzioni, incassa l’abbattimento di un drone Usa e manda centinaia di soldati nella vicina Arabia Saudita, liquida come falsa la cattura a Teheran di diciassette spie della Cia, ma continua a ripetere che lui una guerra con l’Iran non la vuole. La guida suprema Khamenei se la prende con le petroliere che attraversano lo Stretto di Hormuz, ne danneggia sei e una la sequestra, distrugge il drone americano, ma anche lui afferma, con il presidente Rohani, che non vuole una guerra tra Iran e Usa.
Sembra di essere alla vigilia della Prima guerra mondiale, nel tempo dei «sonnambuli» quando tutti negavano di volere un conflitto e già risuonavano le pistolettate di Sarajevo. Il mondo e le circostanze sono certo molto diverse, ma anche oggi faremmo bene a dubitare, e a temere che un attentato di Sarajevo in chissà quale forma possa giungere all’improvviso. Quanto può durare, del resto, un esercizio di provocazioni al limite dell’esplosione bellica come quello che è in corso da mesi nel Golfo Persico?Il capo della superpotenza americana e le massime gerarchie di Teheran, in realtà, stanno facendo esattamente lo stesso gioco.
Un gioco che non soddisfa settori importanti del loro potere e che di questo passo, petroliera dopo petroliera e drone dopo drone, rischia di deflagrare in anticipo rispetto ai calcoli dei due giocatori. Cosa vuole Trump? Vuole dimostrare di aver fatto bene a uscire un anno fa dal trattato anti-nucleare firmato con l’Iran nel 2015, dando un calcio politico a Obama che l’aveva sottoscritto e un altro agli alleati europei che l’avevano auspicato. Per questo il presidente applica a Teheran sanzioni micidiali che stanno distruggendo l’economia iraniana, e con l’altra mano offre negoziati «diversi e migliori», che comporterebbero in pratica una resa dell’Iran non solo nel settore nucleare, ma anche nella presenza regionale e nel campo missilistico. In attesa che Teheran ceda (ma la formula è già fallita con la Corea del Nord) va applicata la «massima pressione» anche militare. E se poi davvero Teheran dovesse non cedere e per un caso improbabile i sondaggi presidenziali prima del novembre 2020 fossero negativi, allora una già matura azione militare circoscritta contro l’Iran potrà servire a riportare gli elettori Usa dalla parte del Commander in Chief.
E cosa vuole Khamenei, ammesso che possa ancora scegliere? Vuole dimostrare a Trump che un attacco all’Iran non sarebbe una passeggiata, anche grazie agli S-300 russi. Vuole esercitare quella deterrenza che forse ha già funzionato dopo l’abbattimento del drone americano, quando Trump ha ordinato la rappresaglia per poi fermarla venti minuti dopo. Non vuole, Khamenei, tornare al negoziato bilaterale con gli Usa sotto una spada di Damocle, perché per l’opinione pubblica nazionalista l’umiliazione potrebbe essere peggio delle privazioni economiche. E comunque Cina e India un po’ di petrolio continuano a comprarlo. Vuole invece ricordare a tutti che da Hormuz passa il 30 per cento del greggio mondiale. Vuole anche esercitare una simbolica pressione sugli europei che dissentono dalla linea di Trump ma non sono in grado di sottrarsi al potere internazionale del dollaro diventato il guardiano delle sanzioni «extra-territoriali» dichiarate dagli Usa. Purtroppo il nuovo sistema di pagamenti escogitato dalla Ue non serve a pagare il petrolio. E quali aziende europee faranno affari con l’Iran, se come conseguenza rischieranno di perdere l’accesso al mercato statunitense? Teheran sa benissimo che questa Europa in transizione ha le mani legate. E sa che la Gran Bretagna, quella stessa che ha sequestrato una petroliera iraniana davanti a Gibilterra e ha poi dovuto incassare l’analogo gesto iraniano nel Golfo, sarà presto guidata da Boris Johnson. Che con Trump s’intende bene. Sanno infine, Khamenei e Rohani, che una vera guerra sarebbe vinta dall’America. Che le reazioni popolari sarebbero imprevedibili. E soprattutto che le Guardie della Rivoluzione amplierebbero ancora il loro potere, aprendo forse le porte a un Iran guidato dai generali, anziché dagli Ayatollah.
Il paradosso che ulteriormente accomuna il presidente Trump e i capi di Teheran è proprio questo, che tutti devono fare i conti nella loro strategia con un serio problema di opposizione interna. A Washington la moderazione attendista di Trump (mentre la corda delle sanzioni economiche viene stretta sempre di più) si urta alla voglia di menar le mani del consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton, che non ha mai nascosto di ritenere urgente e necessaria una punizione armata dell’Iran. Si dice che Bolton sia stato parzialmente emarginato dal Presidente, ma il segretario di Stato Mike Pompeo non è nemmeno lui una colomba quando si parla di Iran. Dalla parte opposta ci sono le già citate ambizioni dei Pasdaran che trovano appoggio nelle ali dure del regime, quelle che nel 2015 si erano opposte all’accordo con l’Occidente e che oggi trionfano dimostrando che con l’America non si possono fare patti. Mentre l’ala moderata, quella di Rohani, può soltanto sperare che Khamenei continui a non abbandonarla.
Fragili equilibri interni, fragilissimi equilibri tra i flutti del Golfo Persico, quanto durerà il gioco? L’unica certezza è che l’Iran ha deciso di sfidare il mondo, di aumentare progressivamente la quantità e l’arricchimento dell’uranio che possiede visto che l’accordo del 2015 nei fatti non viene applicato. Non c’è da allarmarsi troppo, l’arricchimento è passato dal 3,6 per cento al 4, e per un ordigno atomico serve un livello del 90 per cento. Ma c’è già chi vuole passare al 20. E Israele, un passo più in là, ha ragione di allarmarsi più di quanto abbia sempre fatto. Forse dovrebbe parlarne anche a Trump.