Fonte: Corriere della Sera
di Franco Venturini
Quella di oggi è per Trump una prova importante, forse la prima vera prova per capire quanto «matura» sarà la sua politica estera. Non soltanto in Medio Oriente, ma è dal Medio Oriente che si parte
Durante la campagna elettorale per la Casa Bianca, nessuno (nemmeno Putin, al netto di interferenze cibernetiche) ha sostenuto il candidato Trump più di Benjamin Netanyahu. Prima e dopo aver conquistato la presidenza degli Stati Uniti, nessuno ha appoggiato Israele e il suo governo più di Donald Trump. Non serve altro per pensare che l’odierno incontro a Washington tra The Donald e il Primo ministro israeliano sarà felice e facile, un proclama di amicizia da dedicare con tutto il cuore all’uscita di scena di Barack Obama. Ma l’eccesso di convergenze produce talvolta effetti ingannevoli. Perché a conti fatti nessuno vuole esagerare. Perché i problemi sul tappeto hanno una loro dinamica che non può essere eliminata. Perché il presidente degli Stati Uniti, mentre il tempo dei proclami per la platea interna tende lentamente a declinare, alcune cose al più sicuro dei suoi alleati le dovrà pur dire. Ecco perché quella di oggi è per Trump una prova importante, forse la prima vera prova per capire quanto «matura» sarà la sua politica estera. Non soltanto in Medio Oriente, ma è dal Medio Oriente che si parte. Gli insediamenti israeliani a Gerusalemme e in Cisgiordania: Trump vorrà affrontare questo tema scottante? Ci auguriamo di sì. Perché la legge che regolarizza a certe condizioni quattromila alloggi di coloni israeliani in Cisgiordania, se non sarà bocciata dalla Corte suprema, darà il colpo di grazia alla prospettiva già fragilissima della nascita di uno Stato palestinese. Il motivo è semplice: la maggioranza degli insediamenti che potrebbero usufruire delle nuove norme approvate dalla Knesset il 7 febbraio si trova infatti al di là del muro di separazione che Israele costruisce dal 2002, e che in caso di accordo si presume possa fungere da confine con il nuovo Stato palestinese. In verità la formula dei «due Stati» è ormai ampiamente logorata, lo stesso Netanyahu ha spiegato che quello eventuale dei palestinesi sarebbe un «semi Stato», tali e tanti sarebbero i suoi condizionamenti e le sue limitazioni.
Ma la legge del condono il Primo ministro non la voleva, la considerava una inutile e dannosa fuga in avanti, e se ha dovuto alla fine digerirla è per non lasciare troppo spazio politico alla sua destra, al montante partito dei coloni guidato da Naftali Bennet. Se Trump andasse appena oltre quel che ha già cominciato a dire («gli insediamenti non aiutano»), raggiungerebbe il doppio scopo di affermare la verità e di coprire per quanto possibile le spalle del suo ospite. Altro tema cruciale dell’incontro, l’Iran e le possibili conseguenze della pace (russa) in Siria. Netanyahu ha sempre sparato ad alzo zero sull’accordo che gli Stati Uniti di Obama, la Russia, la Cina e gli europei hanno concluso con Teheran per limitare le sue ambizioni nucleari. Ma Trump e i suoi più stretti collaboratori hanno dato talvolta l’impressione di volerlo scavalcare: quel patto andrebbe rinegoziato, l’Iran è uno Stato provocatore come ha appena dimostrato collaudando missili balistici, e tresca con i terroristi che sono il nemico numero uno della nuova Amministrazione, e nuove sanzioni potrebbero essere giustificate. Sin qui Netanyahu avrebbe di che fregarsi le mani, ed emettere qualche altro respiro di sollievo pensando a Obama.
Ma il Medio Oriente è uno scrigno di complicazioni, e di questo gli israeliani sono ben al corrente. Prendiamo l’atroce massacro siriano, ora avviato (forse) a una composizione ottenuta con la forza bruta dalla Russia di Putin, dalla Turchia di Erdogan e dall’Iran di Rouhani-Khamenei (l’uno contro l’altro armati mentre si avvicinano elezioni cruciali). Se i negoziati di Astana e di Ginevra dovessero partorire una intesa che comunque allungherebbe la vita politica di Bashar al Assad, quale scenario si produrrebbe? Dal punto di vista israeliano la novità più importante sarebbe la nascita di una «mezzaluna sciita» che dall’Iran finirebbe in Libano passando dall’Iraq e dalla Siria o parte di essa. Ebbene, in Libano dispongono di grande potere gli Hezbollah, miliziani sciiti che sono rappresentati nel governo di Beirut e che lo Stato di Israele vorrebbero distruggerlo come e quanto Hamas
Potrebbe il governo israelianotollerare la nascita di un flusso di aiuti (armi comprese) dall’Iran agli Hezbollah? Di sicuro no, e lo ha già dimostrato più volte bombardando i «doni» ricevuti dai miliziani in territorio siriano. Si avvicinerebbe allora una nuova guerra in territorio libanese? Non è meglio augurarsi che non siano gli estremisti a vincere le elezioni iraniane? Questo dibattito sta salendo di tono, in Israele. E la sua traduzione politica è che il Trump anti-Iran va benissimo, ma senza esagerare per non diventare controproducente. Trump continuerà poi a «riflettere» sul trasferimento a Gerusalemme dell’ambasciata statunitense, e confermerà a Netanyahu le più totali garanzie sulla sicurezza di Israele, come peraltro faceva anche Obama. Il premier ospite ripartirà contento. E contento sarà il mondo, se vedrà una America pragmaticamente consapevole.