22 Novembre 2024

Il nuovo business degli scafisti. Mentre il regime di Saied ha spento la primavera

«Venite in Route Gremda, quartiere Awabed». Certi indirizzi, a Sfax è sempre meglio dimenticarli. E certi maestri d’ascia che ci lavorano, è bene ignorarli. E anche dai loro coxeur , i riempibarche incaricati di staccare i biglietti per l’Italia, è il caso di stare alla larga: a una famiglia che collaborava con la Gendarmerie, mesi fa, hanno affondato il peschereccio. Attenti alle vendette, fatevi gli affari vostri. Certi giorni, però, non c’è scelta. E se deve dimostrare al mondo che qualcosa si fa, per fermare il traffico dei migranti, la polizia tunisina sa come convincere i pescatori: in cambio di quell’indirizzo avrai 150 euro, la paga d’un mese, e comunque addio reti e tonnare, se non mi dici dove si fabbricano i barchini d’acciaio…

Come bare
Awabed è la nuova fincantieri degli scafisti tunisini. Lo sanno tutti che cosa si costruisce in quei cubi grigi di cemento grezzo, lungo la C81. Rallentate l’auto, abbassate i finestrini e sentirete l’urlo della fresa, il saldatore che ci da’ dentro. L’ultima moda, al salone delle carrette del mare, sono queste vasche ferrose per detriti umani. Sembrano bare, e spesso lo sono. Lamiere sottili e affilate, assemblate alla bell’e meglio e perfette per le traversate low cost, 900 euro fino a Lampedusa, a Pantelleria, alle coste siciliane. I nigeriani, i maliani, gl’ivoriani ormai arrivano così: niente barconi, tutti su gusci che la notte sbucano dalle casette di Sfax, che i radar spesso non vedono e che le navi di soccorso non riescono ad abbordare, perché danneggiano i tubolari. Scafi pronti in poche ore, che costano molto meno d’una barca di legno o di resina, possono portare 50-60 africani, sono instabili e galleggiano poco e imbarcano acqua, ma chi se ne frega anche se affondano col loro carico d’umanità, una notte di lavoro e se ne fabbrica un’altra… Una mattina, i gendarmi convocano un po’ di stampa e si va tutti là, nel quartierino fra la pasticceria Madame Sakka e il supermarket Sorimex, a vedere il cemento dei cubi tirato giù a mazzate e le barche d’acciaio tirate fuori dal buio, dal segreto, dall’omertà. Qualcuna è dipinta di blu, il colore dell’occhio di Allah, buono per scacciare il malocchio: alhamdulillah, graziaddio, in queste placide notti di Ramadan è tranquillo anche il mare, ma non si può mai sapere.
Acciaio, fame, siccità. È a questa trimurti nera che la Tunisia 2023 deve inginocchiarsi, implorando di sopravvivere. Gli sbarchi coi nuovi barchini di metallo, quadruplicati, sono spinti da una carenza di cibo mai vista: l’inflazione naviga sopra il 10 per cento, l’ortofrutta costa un terzo in più che un anno fa. E la fame, con la raccolta del grano calata del 75 per cento, coi carichi importati dall’Ucraina che vengono respinti perché non ci son soldi per pagarli, sgorga da una mancanza d’acqua che in cinque anni ha ridotto anche dell’80% le trenta dighe del Paese. Per la prima volta s’è deciso il razionamento: dalle nove di sera alle cinque del mattino, e almeno fino ad autunno, in molti rioni della capitale i rubinetti devono restare a secco.

Le spine di un nuovo regime
Le piaghe della Tunisia, abbiamo finto di non vederle per anni. «Non vi lasceremo soli», è il refrain d’ogni leader (l’ultimo, il commissario europeo Paolo Gentiloni) venuto a promettere molto e a mantenere poco, in questi dodici anni di post-rivoluzione. Ora è già tardi. E i due miliardi di dollari, che il presidente Kais Saied spera d’incassare dal Fondo monetario internazionale, sono solo un placebo. Le riforme chieste dal mondo, lo stop ai sussidi per benzina e cibo o le privatizzazioni, i tagli alla sanità o l’innalzamento dell’età pensionabile, sono ferite insopportabili.
E dove fiorivano i gelsomini delle libertà conquistate nella Primavera 2011, sono spuntate le spine d’un nuovo regime: Saied ha sciolto il governo, ridisegnato la Costituzione, esautorato il Parlamento, depotenziato i magistrati, incarcerato gli oppositori, scatenato la caccia ai neri «che minacciano la nostra identità». A Tunisi l’applaudono, disperati: nessuno protesta più sull’avenue Bourguiba, la democrazia può restare in frigorifero, hai visto mai che possa funzionare anche qui (stile Erdogan) il ricatto migranti-in-cambio-di-miliardi? A Sfax, hanno bisogni più urgenti: frigoriferi pure qui, ma per conservare i cadaveri ripescati dal mare. E occorre costruire nuovi cimiteri, per evitare di buttarli nelle fosse comuni come s’è fatto a Zarzis. Anche l’obitorio non ha più posto, dicono: fra dieci giorni finisce il Ramadan, e sono già pronti i nuovi barchini d’acciaio.

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