A 11 anni dalle Primavere arabe solo l’8,8% dei cittadini si è presentato alle urne. Ma il «golpista» Saied è saldo
E adesso spogliati dei superpoteri che ti sei dato. E vattene. Perché la poltrona non ce la si tiene, quando il popolo s’astiene. E se sabato il 91,2 per cento dei tunisini s’è rifiutato d’eleggere un Parlamento che non può essere considerato un Parlamento , dicono le opposizioni, tutto ciò è «un terremoto 8 gradi Richter che avrà gravi conseguenze». E Kais Saied, sciò, deve «dimettersi immediatamente». «Il fallimento», titola Maghreb: non s’era mai vista una partecipazione dell’8,8 per cento, scrive il giornale, che snobbasse fino a questo punto il diritto di voto così faticosamente riconquistato con la Rivoluzione del 2011. Un anno e mezzo fa il presidente s’era trasformato in un presidentissimo? Oggi, commenta il leader del Fronte di salvezza nazionale — il cartello dei cinque partiti che aveva invitato al boicottaggio elettorale, prima fra tutti la fratellanza musulmana di Ennahda —, è chiaro che «pochissimi tunisini sostengono l’approccio di Saied». Non c’è bisogno d’aspettare lo spoglio delle schede, che peraltro rinvia il risultato definitivo ai ballottaggi di febbraio: per Ahmed Chebbi l’astensione di massa è già da sola «un grande disconoscimento popolare del processo» avviato il 25 luglio 2021, da quel «golpe» con cui Saied aveva congelato l’Assemblea dei rappresentanti, azzerato i partiti e dimissionato il governo, avocando a sé ogni potere esecutivo, legislativo e pure giudiziario. Ottocentomila votanti su nove milioni d’elettori hanno parlato col loro silenzio e la risposta popolare, di fronte a candidati che erano perfetti sconosciuti, è arrivata forte: «Il 92% ha voltato le spalle a questo processo illegale che si fa beffe della Costituzione», e per questo ora serve un alto magistrato che regga l’interim e «organizzi nuove elezioni presidenziali», senza aspettare la scadenza del 2024 (e prima che il nuovo Parlamento, disegnato a immagine di Saied, tenti magari di rinviarle…).
Sarebbe tutto logico, in una normale democrazia. E in un Paese talmente malconcio da avere un tasso d’inflazione (9,8%) più alto di quello dell’affluenza alle urne. Ma Saied, lui, evita ogni commento. E raccontano non si consideri sconfitto, anzi: la partecipazione elettorale «modesta però non vergognosa», secondo un suo fedelissimo, si spiegherebbe in realtà col fatto che ormai Ennahda non riceva più i finanziamenti dal Qatar. E sarebbe la riprova che il populismo qualunquista del presidente si fonda su una verità: tutti i partiti spariscono, se non possono foraggiare chi li vota. Tutto sommato poi, questi 161 nuovi deputati ridotti a poco più di un’assemblea di condominio, rientrano nei disegni d’un Saied stravotato tre anni fa proprio perché considerava il Parlamento un inutile orpello. Dopo avere smantellato i contropoteri, il capo dello Stato completa la costruzione d’un regime iper-presidenzialista e non si sente affatto un’anatra zoppa: nella Costituzione che s’è dato non sono previsti strumenti per destituirlo, anche quand’è così delegittimato. E non si vede chi possa farlo dall’opposizione, eternamente divisa fra islamici e laici. Saied ha in realtà un solo avversario: una devastante crisi economica. La disoccupazione e i barconi carichi d’emigranti. Già da oggi, il Fmi avrebbe dovuto prestargli 1,9 miliardi d’euro, ma i soldi sono stati congelati in attesa di riforme vere che non si vedono. Sono arrivati solo 200 milioni della Banca europea e 150 serviranno per comprare subito grano tenero: in questa Tunisia affamata e sfiduciata, il gioco si fa duro.