23 Novembre 2024

Fonte: La Repubblica

velo islam

di Marco Ansaldo

Il reportage. La parte liberale del Paese sembra sparita, anche dai quartieri più europei della metropoli del Bosforo. Ovunque caroselli di macchine con i fedelissimi del partito del presidente che urlano “Allah u Akhbar”

In auto quattro uomini barbuti apostrofano due ragazze che passeggiano sorridenti sulla discesa di Barbaros Bulvari, il boulevard del quartiere Besiktas, a Istanbul. “Questi sono gli ultimi bei giorni per voi – attacca il tipo a fianco del guidatore – tra poco metterete il velo come tutte!”. Scoppia un alterco, le donne si ribellano, i quattro rispondono, finiscono per andarsene. Ma le ragazze, sconvolte, si perdono nelle lacrime.
Benvenuti nella Turchia sopravvissuta al golpe. Dove giorno e notte bande di esaltati percorrono le strade di Istanbul a clacson spianati come per una vittoria calcistica. Dove famiglie intere coi bambini in braccio indossano sul capo una fascia rossa con il nome del presidente conservatore islamico Recep Tayyip Erdogan. E dove donne velate con il niqab nero che le copre fino ai piedi fanno spuntare la mano per agitare la bandiera rossa con la mezzaluna al grido “Allah u Akhbar”, Dio è grande.
La faccenda del vessillo nazionale è il dettaglio più sorprendente. Da sempre i turchi, più che essere nazionalisti, sono molto patriottici e adorano la propria bandiera. Guai a chi la profana, a rischio della vita. Ma il pezzo di stoffa rossa, da quasi cento anni simbolico appannaggio dei laici che si richiamano al pensiero kemalista di Ataturk, il fondatore della Turchia moderna, gli è ora stato letteralmente strappato dalle mani, per passare in quelle dei lealisti islamici. E adesso lo brandiscono felici, come per un tesoro conquistato.
Mai, in questo paese, si era visto uno stormire di bandiere così esibito come dopo la conclusione del fallito golpe. E nelle piazze, nelle strade, lungo i viali, compaiono solo loro: i seguaci di Erdogan, i fedelissimi del presidente sfuggito alla destituzione. Galata, quartiere europeo per eccellenza, colonia genovese di Costantinopoli, pare un deserto: negozi serrati, ristoranti chiusi, attività ferme.
Passa una motoretta, ma sono due barbuti che alzano le dita a V. La zona oggi si chiama Beyoglu: qui c’è il famoso Liceo Galatasaray, l’Accademia di Francia, il Consolato di Svezia, bar e locali dove i turisti stranieri ascoltavano musica inebriati dal raqi, il prelibato distillato d’anice. Però questa sera, come tutte le altre ormai, dopo il golpe, nulla di tutto questo: solo silenzio, paura, e nemmeno un goccio di liquore.
Ma dove sono tutti gli altri? I laici, i democratici, i liberali. Dov’è la Turchia scesa in Piazza Taksim e a Gezi Park. Sono tutti a casa, la testa fra le gambe. “Abbiamo paura a uscire – spiega Meltem, bella manager quarantenne, al lavoro la mattina in tailleur blu elettrico – il presidente ha ordinato ai suoi di presidiare le strade e le piazze, e allora è meglio non rischiare di cadere in provocazioni. Tutti sono molto emotivi, adesso. Potrebbe scatenarsi una guerra civile, facile che accada, ed è opportuno evitare ogni attrito. Possiamo solo sperare che la situazione cambi. Come? È una bella domanda. Non lo sappiamo davvero. Ma con le elezioni non è stato mai possibile. I media sono quasi tutti asserviti. Polizia e magistratura hanno paura. Nemmeno l’esercito è riuscito a fare il golpe. Sì, ci sentiamo proprio soli”.
Così i nuovi padroni imperversano e si sono impadroniti di Piazza Taksim, cuore della città. E, naturalmente, del Parco Gezi della famosa rivolta. Adesso innalzano colonne di fumo come per uno spettacolo musicale, urlano slogan al microfono, cantano fino alle 3 del mattino. Autobus e metro, per tutti, sono gratis, pur di presidiare le vie. Quando poi al mattino appare il leader, è un tripudio di bandierine in festa. Lui annuncia: “Se Dio vuole, come prima cosa costruiremo caserme a Taksim. Che lo vogliano o no”. In arrivo altre misure: la chiusura del Centro culturale di Ataturk, la costruzione dell’ennesima moschea. E Piazza Taksim e Gezi Park, simboli storici della laicità, possono languire nell’islamizzazione accelerata.
I numeri la evidenziano. Il Partito della Giustizia e dello Sviluppo, al potere dal 2002, ha conquistato alle ultime elezioni del 2015 più del 49 per cento dei voti. La metà del paese. Ma è soprattutto una rivoluzione sociale, quella in atto nella repubblica di Mustafa Kemal: oggi alle leve del comando sono gli anatolici, i cosiddetti “turchi neri” delle provincie più interne e lontane; mentre i “turchi bianchi” della costa, circassi, occhi azzurri, biondi come lo era Ataturk, stanno confinati ai margini dopo aver comandato per tutto il secolo scorso.
E questo è un momento di svolta. Perché se l’altra metà del paese non sarà capace di reagire, velocemente, e le strade continueranno a essere presidiate da baffuti e donne velate con in pugno la bandiera, la Turchia cosmopolita e tollerante di un tempo rimarrà un ricordo. Di un paese che, a guardarlo trasformarsi, si avvicina a tappe spedite all’Iran e agli Emirati arabi uniti.

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