22 Novembre 2024

Non si ferma il flusso di aiuti, ma le strade sono bloccate: «Dobbiamo trovare i vivi». Erdogan parla di migliaia di salvati e dichiara 3 mesi di emergenza. In Siria: «Assad non ha ancora autorizzato gli aiuti internazionali»

I capelli raccolti da una fascia per proteggersi dalla polvere. Nina, volontaria di una ong affiliata alla Mezzaluna rossa, alza un libro di scuola sopra la transenna che delimita l’area dei soccorsi. Chi sa, capisce. Non si recuperano più solo i corpi, il giorno dopo la furia. Effetti personali, ricordi di una vita che non sono bastati a tenere lontana la morte, portati a chi aspetta per avere qualcosa su cui piangere.
Il silenzio viene lacerato dal grido di una madre che ha riconosciuto il disegno del figlio. Diyar, 35 anni, sul volto che oggi ne pare avere 100, in quel palazzo di 15 piani che ora non esiste più è stata felice. «Perché gli edifici intorno non sono crollati?», si dispera. Non sapeva, non poteva sapere, Diyar, che l’apertura di un supermercato nei piani bassi aveva debilitato le fondamenta già fragili. Anni di abusivismo edilizio e incuria, particolarmente marcato nel Sud Est del Paese hanno da sempre reso questa terra particolarmente esposta alla furia dei terremoti. Il motivo, spiega ad Al Jazeera Mustafa Erdik, docente all’Università di Bogazici c’è e non è certo difficile da intuire: «Il numero tanto alto di vittime è causato dalla scarsa qualità degli edifici». Così dall’urbanizzazione di massa degli anni Cinquanta in poi, compreso dopo il sisma del 1999, ben poco è stato fatto per prevenire i crolli e per mettere in atto i piani antisismici.

Legna e lacrime
Nina va avanti per un’altra mezzora: gli album di fotografie, le ciocche di capelli con il fiocchetto mentre i lamenti delle madri e dei padri, composti, quasi fossero preghiera, si mescolano alla polvere grigia delle macerie. Poi anche lei crolla e si gira per non farsi vedere piangere, mentre i volontari portano la legna da accendere per scaldare chi resta in strada. Alle loro spalle quello che resta. Ancora da scavare. Si sta davanti alle macerie per ore ad aspettare anche il più piccolo segno, mentre i bulldozer lavorano. Chi osserva sta in silenzio, come chiedono anche i soccorritori perché ogni lamento che proviene dal là sotto, in mezzo a quei blocchi di cemento e cavi, anche il più flebile, può essere traccia.
È il giorno dopo, quello in cui si prova ancora, in cui la «priorità va ai vivi», come ripetono tutti. Turchia e Siria così vicine e così lontane, separate da un confine sigillato da Ankara per evitare altri rifugiati. I ritardi nei soccorsi, come denunciano sui social i cittadini di Hatay, particolarmente colpita. «Nessuna squadra e nessun funzionario è venuto a Pazarcik», scrive su Twitter un abitante del villaggio all’epicentro del sisma, mentre l’hashtag #HatayYardimBekliyor (Hatay aspetta aiuto), sale in classifica. È la politica di Ankara ad essere messa sotto accusa . «Perché lo Stato non ci aiuta?», grida un uomo di Gaziantep. In attesa che suo padre venga salvato da sotto le maceria, rivolgendosi ad un deputato del partito al potere.
Al di là della contestazione ancora contenuta, c’è anche la difficoltà di coordinare gli aiuti in un’area tra le più complicate della regione sia dal punto di vista geografico che politico. A distanza di oltre 30 ore dal crollo, sperare richiede sempre più coraggio. Ma è ancora presto per le proteste. Intanto però la polizia turca trova il tempo di arrestare quattro persone accusate di essere «provocatori che miravano a creare paura e panico» per alcuni post in rete. Ancora peggiore la situazione in Siria, dove l’opposizione al regime di Bashar al Assad denuncia che «centinaia di famiglie» sono intrappolate sotto le case crollate  e i soccorsi iternazionali incontrano la chiusura di Damasco che — afferma il portavoce della Commissione Ue Eric Mamer — non ha ancora inviato l’indispensabile autorizzazione. E in 20 approfittano del terremoto e del caos per fuggire dalla prigione militare di Rajo, vicino al confine turco nel nordovest della Siria, dove si trovano 1.300 miliziani dell’Isis.
Si accascia intanto sul marciapiede Mehmet, 30 anni, più di un quintale di muscoli stretti nella tuta blu dell’Afad, la protezione civile turca. «Lavoro da più di 24 ore, non riesco più, devo chiamare mia figlia».

Il meteo inclemente
Poche immagini ritraggono così chiaramente l’agonia come la mano di Mesut Hancer stretta a quella di sua figlia 15enne Irmak morta lunedì notte e ancora stesa lì sul suo materasso con il suo papà a fianco. È Kahramanmara, epicentro del primo terremoto, città popolata soprattutto dai rifugiati, povera e rurale. Triangolo dei siriani, lo chiamano gli addetti ai lavori. È lì, tra Salinurfa e Gaziantep, che il sisma si è abbattuto con particolare furia. Anche lungo la strada che da Adana va verso Est, non si smette di scavare, mentre spostarsi è sempre più difficile, tra blocchi, ponti inagibili e code infinite di mezzi. Ogni chilometro è una conquista. Aperto ai voli civili, ma con mille difficoltà, resta solo l’aeroporto di Adana. Mentre alla base di Incirlik, la stessa da cui in questi anni sono partite le maggiori operazioni militari in Medio Oriente, gli aerei militari atterrano e decollano senza sosta.
Non si ferma nemmeno il flusso di soccorritori in arrivo, sebbene sia ancora difficile trovarli operativi sul campo. Da Città del Messico arrivano perfino 16 labrador altamente specializzati, con un curriculum di salvataggi sotto le macerie da terremoti di tutto rispetto e che vantano decine di vite umane riportate alla luce. Ma non basta. Ad essere avvolto dal fumo nero, dopo che centinaia di container hanno preso fuoco per il terremoto, è il porto di Iskenderun, uno dei due principali scali per container sulla costa sud-orientale della Turchia, i cui carichi ora sono dirottati verso altri porti in Turchia e a Porta Said in Egitto. Un altro problema per l’arrivo degli aiuti. Così se la logistica è complicata, il meteo inclemente e gli aiuti sembrano non bastare mai, mentre ancora si scava, si conta: 5.894 persone morte in Turchia e 1.806 in Siria, con il totale delle vittime che sale almeno 7.700 alle 22.30 di ieri, secondo il crudele calcolo delle sciagure. Dati e numeri che parlano di una tragedia umanitaria di portata simile a quella scatenata da una guerra: 23 milioni di persone in Turchia e Siria potrebbero essere colpite dal disastro secondo l’Oms.

Emergenza infinita
Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan parla di 8 mila persone salvate — senza dire però ancora quante risultano disperse — tira dritto e dichiara lo stato di emergenza per tre mesi nelle 10 province del Sudest della Turchia mentre a ore è attesa una sua visita nella regione e il ministro della Difesa turco Hulusi Akar parla di circa 7.500 soldati turchi dispiegati sul campo. Intanto ancora si spera davanti ai grattacieli polverizzati di Adana. E mentre il buio ormai avvolge tutto, qualcuno inizia a gridare «Allah Akbar». Subito si riaccendono i fari e i bulldozer rientrano in funzione. Si rianima Mehmet l’operatore della protezione civile che si era preso una pausa. Si asciuga le lacrime Nina che tanto dolore ha visto per tutto il giorno. Forse lì sotto c’è ancora vita. Forse vale ancora la pena lottare.

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