24 Novembre 2024

Fonte: La Repubblica

di Marco Ansaldo

Vertice straordinario dell’Organizzazione della cooperazione islamica (Oic) a Istanbul, convocato da Erdogan. Il presidente turco attacca Trump: “Ha mentalità sionista”. Abu Mazen: “Usa non sono più mediatori di pace”

Il colpo di scena è in apertura. Quando Recep Tayyip Erdogan mostra l’immagine, circolata nei giorni scorsi, di un bambino palestinese bendato e circondato da militari israeliani. “Israele è uno Stato terrorista – dice il presidente turco, lo sguardo duro, rivolto alla platea dei 57 leader di Paesi musulmani convenuti nella colossale Conference Hall di Istanbul per questo vertice urgente dopo il riconoscimento americano di Gerusalemme come capitale israeliana – i suoi soldati sono terroristi che uccidono bambini di 10 anni e li arrestano. Mi chiedono perché lo dico? Ma io come posso non dirlo?”.
E il Sultano attacca. Non solo, ma contropropone: “Invito tutti i Paesi che difendono il diritto internazionale e la giustizia a riconoscere Gerusalemme occupata come capitale dello Stato palestinese. La decisione presa dagli Stati Uniti su Gerusalemme premia gli atti di terrorismo di Israele. Gerusalemme è la nostra linea rossa”.
La risposta alla richiesta di Erdogan arriva nella dichiarazione finale del vertice: “Proclamiamo Gerusalemme Est capitale dello Stato di Palestina e lanciamo una appello agli altri Paesi a riconoscerne la legittimità”, si legge nel comunicato dei Paesi partecipanti pubblicato al termine diel summit, nel quale la decisione di Trump viene bollata come un gesto “irresponsabile, illegale e unilaterale del presidente degli Stati Uniti che riconosce Al-Quds (Gerusalemme, ndr) come la cosiddetta capitale d’Israele, la Potenza occupante”.
La Turchia si pone al centro del gioco. Ma il fronte islamico è diviso, Ankara coglie al volo l’atmosfera e non lesina le critiche, soprattutto agli esponenti arabi. Perché alla fine Arabia Saudita ed Emirati arabi hanno inviato al summit di Istanbul solo ministri di seconda fila, e i non capi di Stato o i ministri degli Esteri, come invece molti altri Paesi. Ci sono il palestinese Abu Mazen – che già l’altra sera ha avuto un colloquio a porte chiuse con Erdogan -, i presidenti di Iran e Libano, Hassan Rohani e Michel Aoun, e il re di Giordania Abdallah II. È comunque un segno della spaccatura nel fronte musulmano fra chi a parole condanna la dichiarazione di Trump mostrando di stare con i palestinesi, ma continua a fare affari e diplomazia con l’America, e chi invece si oppone agli Usa in modo apertamente duro non risparmiando critiche all’amministrazione Trump.
“D’ora in poi i palestinesi non accetteranno più alcun ruolo di mediazione degli Usa nel processo di pace in Medio Oriente”, tuona il presidente palestinese Abu Mazen, che poi attacca il capo della Casa Bianca: “Trump vuole regalare Gerusalemme a Israele, come se stesse donando uno degli Stati degli Usa, come se fosse la sola persone con l’autorità di decidere”. E chiarisce che “Gerusalemme è e sarà sempre la capitale dello stato palestinese… Non ci sarà né pace né stabilità in mancanza di ciò”.
Un appello all’unità islamica ha lanciato anche il presidente iraniano, che dichiara che il suo Paese è pronto a cooperare “con tutti i Paesi islamici senza alcuna riserva o precondizione per la difesa di Gerusalemme”. Il leader di Teheran mette in guardia contro “il pericolo del regime sionista” di Israele, dicendosi convinto che Donald Trump abbia ‘osato’ riconoscere Gerusalemme come capitale perché incoraggiato dalla volontà di alcuni Paesi della regione di stabilire relazioni con Israele. Pur senza indicazioni esplicite, il riferimento del leader di Teheran appare rivolto ai Paesi del Golfo, e in particolare all’Arabia Saudita, che guida il fronte anti-Teheran nel mondo musulmano.
In una Istanbul blindata dalla sicurezza (decine sono solo gli agenti al seguito del leader venezuelano Maduro, nuovo amico di Erdogan e presenza diversa nel vertice dell’Organizzazione della conferenza islamica), il presidente turco si pone come aspirante nuovo player nel Medio Oriente (dietro la spinta e il consenso di Vladimir Putin, che l’altro giorno ad Ankara gli ha dato un informale via libera) negli incontri, già cominciati nella serata di martedì negli alberghi della metropoli dove sono confluiti i 18 capi di Stato.
I margini di intervento del Sultano sono delicati e complicati, perché deve cercare di arrivare a una dichiarazione comune su Gerusalemme e contro le affermazioni fatte da Donald Trump. Un risultato comunque alla sua portata e che molti osservatori pensano non impossibile da ottenere. L’idea è in ogni caso quella di lanciare “un messaggio forte” a Trump, accusato dal presidente turco di avere una “mentalità sionista”, e agli Stati Uniti, pur non fermandosi, da parte della Turchia che gioca come padrone di casa, nelle critiche a quei Paesi che per Ankara mostrano “debolezza sulla questione”.
Come ha detto aprendo i lavori al mattino presto il ministro degli Esteri, Mevlut Cavusoglu: “Alcuni Stati arabi hanno espresso una posizione estremamente debole, pare che alcuni temano fortemente gli Stati Uniti”.
Un monito anti Usa e anti Israele: “Ci siamo riuniti qui con l’obiettivo di fermare la persecuzione. Gli Stati Uniti hanno ferito profondamente la coscienza dell’umanità. Israele mira a legittimare il suo tentativo di occupazione”.

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