Ieri l’ok del Parlamento alla riforma per garantire celerità nelle indagini. “Non basta: serve accompagnare chi fugge e investire nell’educazione”
L’ultima è stata trovata ieri, nel Trapanese. E Marisa Leo è appunto l’ultima, ma di una lista iniziata lo scorso 4 gennaio con Giulia Donato e che oltre a loro due conta altre 77 donne. Nel 2022 ne sono state uccise oltre 90, 70 nel 2021. Andando indietro, nell’anno del Covid e dei lockdown, 74. Il numero delle vittime della violenza di genere in Italia ha lievissime flessioni dal 2013, ma nessun calo nonostante misure e Codici rossi. Le denunce aumentano, ma sono ancora poche e, spesso, vengono ritirate o non bastano a salvare vite. Come nel caso di Marisa,uccisa malgrado il suo impegno anti-violenza e la scelta di chiedere aiuto.
Non emergenza ma endemia
I numeri in Italia restano «da genocidio», si legge su un report di Istat. E anche se precisare che i colpevoli sono, nell’80% dei casi, i partner, gli ex o familiari non fa più notizia, sottolinearlo è bene, perché «dietro a un numero così alto, e ad alcune dinamiche costanti c’è una molteplicità di ragioni», secondo Antonella Veltri, presidente di Di.re., Donne in rete contro la violenza. In Europa il nostro Paese è terzo per il numero assoluto di donne uccise dai partner. «Non è un’emergenza — aggiunge Veltri — è un fenomeno endemico».
La sfiducia nella giustizia
Un primo filo per sbrogliare la matassa è quello che parte dalle denunce e dall’iter che innescano. O dovrebbero innescare. Veltri racconta che «su 21mila donne che ogni anno si rivolgono ai centri solo il 27% denuncia: c’è una sfiducia totale nel sistema giudiziario». Tanto che lo scorso 11 novembre, per la quarta volta solo nel 2023, l’Italia è stata bacchettata dalla Corte europea dei diritti umani per inadempienza nella protezione delle vittime: una donna è stata giudicata “ostile” perché rifiutava di partecipare agli incontri dell’ex maltrattante con i figli che hanno insieme.
Misure blande o inefficaci
Ma Veltri definisce alcuni casi «agghiaccianti» e prova delle «enormi distinzioni nella protezione, a seconda della preparazione di forze dell’ordine, avvocatura e magistratura: spesso il maltrattante ha la facoltà di muoversi e va girare attorno alla casa della donna che lo ha denunciato». Ma capita anche che «il violento venga condannato a una pena breve, che quindi viene sospesa come avesse rubato una mela. Appena può corre dalla ex per vendicarsi», racconta un’assistente sociale di Palermo, che spiega anche che «a volte le misure non sono punitive, ma cautelari: il braccialetto elettronico per esempio viene staccato quando inizia il processo, il maltrattante ottiene gli arresti domiciliari e il Tribunale non verifica dov’è la casa della ex. Facciamo due più due».
Chi rinuncia alla difesa
Ma questo, appunto, quando — e se — una denuncia c’è. Marisa Leo, l’ultima vittima di un sistema che non sostiene le donne, l’aveva ritirata. Ogni storia è diversa ma Veltri pensa che dietro a ogni rinuncia ci sia una moltitudine di elementi: «Stereotipi pressanti, minacce, assenza di reddito, forze dell’ordine che minimizzano, parenti che giudicano. Perciò gli interventi devono essere multidimensionali».
La via giudiziaria non basta
Ha avuto ieri l’ok definitivo alla Camera il disegno di legge per «l’avocazione delle indagini per i delitti di violenza domestica o di genere»: se la vittima non viene ascoltata entro tre giorni il procuratore riassegna il fascicolo, per avviare un’azione più rapidamente. La prima firmataria è la leghista Giulia Bongiorno, che dice: «Le donne allo Stato chiedono velocità». Ma la norma, che pure è un rafforzamento del Codice rosso, per molti non basta: «Occorre investire sull’educazione a partire dalle scuole», commenta la segretaria del Pd Elly Schlein. E per la senatrice dem Valeria Valente, «anche sulla cultura delle famiglie e sulla formazione degli operatori: servono risorse e strumenti operativi».
Più aiuti per ricominciare
Concorda chi con quelle risorse e quegli strumenti lavora ogni giorno. Fabio Ruvolo, che con la cooperativa Etnos gestisce tre case rifugio per vittime e un centro di recupero per uomini maltrattanti, spiega che «i rifugi non sono sufficienti: alcune vittime vanno a casa di amici, altre tornano dall’ex perché finanziariamente non autonome e spesso scoraggiate dai primi interlocutori, di solito le forze dell’ordine, che non sanno dare informazioni».
Una rivoluzione culturale
Da presidente della Commissione d’inchiesta sul femminicidio, Valente aveva anche detto che c’è un 64% di vittime che resta sommerso. Da una parte la cultura, dall’altra l’assenza di prospettive: il 37% delle italiane non ha un conto corrente e il Reddito di libertà, istituito nel 2020 per le vittime di violenza, è passato da 3 milioni di euro a 1,8, in un Paese in cui, osserva Veltri, «una delle forme di violenza più acuta è quella economica: ecco perché gli interventi devono essere multidimensionali». Perché, racconta Ruvolo, «sia uomini che donne non riconoscono la violenza: i primi arrivano convinti che la loro rabbia sia stata provocata dalla vittima, le seconde si colpevolizzano per la violenza subita. Sono tutti vittime di un patriarcato e di un maschilismo sistemici».