Fonte: Corriere della Sera
di Danilo Taino
Senza la politica monetaria espansiva della Bce l’economia italiana sarebbe in recessione dello 0,3%, la disoccupazione sarebbe al 14,1%, il deficit pubblico del 2017 sarebbe del 6,6% e il debito dello Stato sarebbe oggi al 157,3%
L’ipotesi di mettere in qualche modo sotto tutela l’Italia dopo le elezioni della prossima primavera è, nei corridoi europei, nella mente non più solo dei cosiddetti «falchi» di Bruxelles e di Berlino. È parte di uno scenario fondato su una realtà che tutti, nella Ue e nell’Eurozona, prendono ormai in considerazione. Le ragioni politiche sono evidenti: non è detto che nel 2018 a Roma ci sia un governo solido; i commissari e i ministri finanziari europei si devono preparare a una possibile instabilità. Ma una certa instabilità politica, che c’è anche in altri Paesi, sarebbe gestibile se i conti pubblici italiani andassero bene. È che non vanno bene anche se la ripresa dell’economia sembra più forte del previsto.
Le parole dure dette martedì da Jyrki Katainen escono da questa lettura preoccupata. «La situazione in Italia non sta migliorando», ha sostenuto il vicepresidente della Commissione Ue. «Tutti gli italiani dovrebbero sapere qual è la situazione», ha aggiunto. Concetti che, se confermati com’è probabile la prossima settimana in una lettera al governo italiano e nei mesi a venire, intendono illustrare che Roma non ha fatto quello che doveva negli anni scorsi e continua a scalciare la lattina giù dalla discesa invece di affrontare i problemi. Anche il Documento di Economia e Finanza (Def) 2018 è visto in Europa come un altro, inutile rinvio.
La «situazione» che gli italiani dovrebbero conoscere di cui parla Katainen è bene illustrata da un’analisi presentata lunedì da Economia Reale, il centro studi guidato dall’ex viceministro Mario Baldassarri. Prima di analizzare il Def, l’analisi simula cosa sarebbe successo se non ci fosse stata la politica monetaria estremamente espansiva della Bce di Mario Draghi. In sostanza, Economia Reale calcola che senza l’effetto Draghi l’Italia sarebbe ancora in recessione (quest’anno dello 0,3%), che la disoccupazione sarebbe al 14,1% invece che all’11,4%, che il deficit pubblico del 2017 sarebbe del 6,6% invece del 2,1% e che il debito dello Stato sarebbe oggi al 157,3% e raggiungerebbe quasi il 180% nel 2020. Senza l’effetto Draghi, il governo italiano avrebbe dovuto fare manovre drastiche oppure essere commissariato da Bruxelles. Il problema è che sotto l’ombrello della Bce si è continuato a rinviare i problemi.
E qui si viene al Def 2018, che i ministri delle Finanze europei hanno sul tavolo. I bassi tassi d’interesse della Banca centrale europea hanno sì consentito di risparmiare molto in servizio del debito — per esempio, 43 miliardi nel 2017 rispetto alle previsioni del 2013. Baldassarri calcola però che la spesa pubblica sia aumentata soprattutto perché la spesa corrente è cresciuta di 54 miliardi nel corso della legislatura (2018 rispetto al 2012). In questo quadro, «in tutta la legislatura si è ogni anno spostato in avanti l’obiettivo di azzeramento del deficit» utilizzando la cosiddetta flessibilità europea, cioè l’autorizzazione a fare nuovo debito in attesa di misure correttive future. Lo stesso vale per il Def 2018, nel quale, come nei due anni precedenti, si disinnescano le clausole di salvaguardia (aumento dell’Iva e delle accise) e le si rinviano all’anno successivo. Il debito pubblico è sempre aumentato nel corso della legislatura ed è previsto toccare i 2.300 miliardi nel 2018 (130% del Pil), 310 miliardi in più rispetto al 2012.
Negli scorsi due-tre anni, a Berlino e a Bruxelles l’impressione che l’Italia rinviasse la correzione della dinamica del bilancio è sempre stata forte, ma per ragioni politiche — la speranza che Enrico Letta, Matteo Renzi, Paolo Gentiloni facessero riforme — le critiche sono state sotto tono o inesistenti e la «flessibilità» concessa. Ora, però, si fa largo l’impressione che Roma faccia troppo conto su quello che viene definito un ricatto implicito, la pretesa di avere più tempo in cambio di stabilità politica in Italia: se, dopo le elezioni, la stabilità non dovesse più esserci, crollerebbe il meccanismo stesso dello scambio (comunque considerato irritante e da terminare). Da qui, la nettezza di Katainen e l’ipotesi di chiudere la finestra della flessibilità per passare ad altro.