Fonte: Corriere della Sera
di Massimo Nava
La grande polemica sul debito pubblico e sulla flessibilità invocata da Renzi conferma che l’economia non é scienza esatta, ma variabile della politica, dei sondaggi, del momento storico. Così, la contabilità non sempre é lo specchio dello stato di salute di un Paese, dal momento che sembra dipendere da interpretazioni esterne, percezione di sé stessi, grado di giudizio dei mercati. Come se il denaro avesse sfumature di colori o tempi stagionali.
Se osserviamo gli Stati Uniti — rispetto a crescita, investimenti e occupazione — il debito é salito da 10 mila miliardi di dollari nel 2008 (inizio della crisi) a oltre 19 mila, quasi il doppio in meno di dieci anni, 60 mila dollari per ogni americano. Le previsioni sono per un aumento nei prossimi anni, anche per fare fronte alla spinta della spesa militare.
Nello stesso periodo, l’Europa della crescita molle, della disoccupazione di massa, ripiegata nelle paure dell’invasione, in calo demografico, ha visto il debito complessivo ridursi a circa 12 mila miliardi, cioé al di sotto di quello degli Stati Uniti. Le previsioni di Bruxelles vanno in senso opposto, nei prossimi otto, dieci anni, passando dal 91 per cento del Pil all’81 per cento.
Basterebbe il confronto a fare sorgere qualche dubbio sulla strategia del rigore e sui meccanismi della spesa pubblica che affliggono il dibattito politico e impediscono all’Europa di uscire dalle secche.
Inoltre, il dato complessivo va messo in relazione alla situazione dei singoli Paesi membri e, in particolare, dei Paesi maggiori. Il debito tedesco é al 65 per cento del Pil e le previsioni sono di abbassamento nei prossimi anni, con il vantaggio che riforme ed eccedenza di bilancio permettono alla Germania anche di finanziare emergenze e in particolare l’invasione di rifugiati. Il debito francese, nonostante le lezioncine di Moscovici, continua ad aumentare, si avvicina al 100 per cento del Pil per la difficoltà di avviare riforme strutturali della macchina dello Stato (peraltro improbabili nell’anno elettorale). Il debito dell’Italia ha passato il 130 per cento, nonostante lo sforzo che si vorrebbe far valere in cambio di maggiore flessibilità. Dati che rimandano alla questione istituzionale della «governance» europea e che dovrebbero tener conto di altri «colori» dei debiti: chi li detiene? Qual é la ripartizione fra famiglie, fondi, potenze straniere, monarchie del petrolio?
Il confronto di ricette e regole è materia per economisti, ma il debito pubblico dell’Europa e dei singoli Paesi non può essere considerato alla stregua dei debiti delle famiglie né essere dissociato da una visione della società e del mondo nel contesto attuale.
Dopo la più lunga crisi finanziaria del Dopoguerra, non ancora superata, l’Europa si trova ad affrontare gravi emergenze combinate fra loro: ondate migratorie, guerre alle porte di casa, terrorismo, pressione militare e diplomatica di Russia e Turchia che mette a nudo assenza di politica estera e debolezza militare.
In questo quadro, guadagna terreno l’emergenza che comprende le altre, la crescita dei movimenti populisti e xenofobi che minano alla radice le responsabilità decisionali dei governi e la loro capacità di raccogliere le nuove sfide, costruendo strategie comuni al riparo da ricatti elettorali.
Anni fa, il filosofo Habermas denunciò l’autocrazia europea che governa il Vecchio Continente, intendendo evidenziare la distanza enorme fra dati contabili e scelte politiche, fra bisogni dei cittadini e rigore burocratico, fra la miopia sul futuro e il microscopio sul presente. Oggi si mette in discussione Schengen. Ma Schengen vale decine di miliardi di euro d’interscambio. Anche questa é contabilità, ma di altro colore, il nero del funerale dell’Europa.