Il conflitto ha già causato il rinvio a Kiev. Ma nel 2024 si va alle urne per l’Europarlamento, si rinnova la sfida Trump-Biden mentre Putin prepara l’ennesima conferma
In Russia Putin sta preparando la sua ennesima rielezione, per acclamazione, in marzo. In Ucraina, Zelensky ha dovuto cancellare la propria. Poi l’Unione europea rinnoverà il Parlamento nel giugno 2024. Infine l’appuntamento più saliente: il 5 novembre 2024 si vota per la Casa Bianca, in una competizione oggi pericolosamente in bilico fra Joe Biden e Donald Trump. Ognuno di questi eventi sarà influenzato dalle guerre in Ucraina e in Medio Oriente e ognuno di essi — anche quelli solo immaginati o del tutto posticci — finirà a sua volta imprimere su di esse una direzione. Già solo constatare il clima in cui ciascuno dei Paesi prepara questi passaggi offre indizi su come potrebbe presentarsi il quadro fra qualche tempo.
Putin avrebbe potuto anche evitare di convocare i russi alle urne: Ramzan Kadyrov, il suo cruento alleato ceceno, gli aveva già pubblicamente consigliato di farlo. Del resto l’esito è scontato e l’«operazione militare speciale» avrebbe forse fornito un pretesto per sospendere anche quest’ultima finzione di democrazia. Ma l’uomo del Cremlino non rinuncerà mai a far legittimare da una super-maggioranza la sua scelta di consolidare il proprio regime in uno stato di guerra semi-permanente. Dal momento dell’invasione il controllo totalitario è sempre più stretto, l’economia è militarizzata. Ora, attraverso un plebiscito su di sé, il dittatore punta di fatto a un referendum a favore di quella che presenta come una «battaglia fra civiltà» in cui la Russia deve difendersi in una sorta di surreale replica della «Grande guerra patriottica». Questa è la lettura che ne dà Andrei Kolesnikov, bollato come «agente straniero» in quanto ultimo studioso del Carnegie Eurasia Russia Center rimasto a vivere a Mosca. «In campagna elettorale — dice Kolesnikov — a Putin basterà promettere la vittoria in quello che lui rappresenta come lo scontro esistenziale con le potenze che assediano la Russia». L’indifferenza degli elettori sarà la sua grande alleata: secondo un sondaggio di Levada, meno di metà della popolazione segue da vicino la guerra in Ucraina, ma il 70% sostiene l’esercito. «La guerra è diventata la modalità in cui il sistema di Putin esiste», dice Kolesnikov: il regime è ormai talmente identificato con essa da non poterne quasi fare a meno per legittimare se stesso, specie in regime di sanzioni internazionali.
Per Zelensky la situazione è, per certi aspetti, simile ma contraria. Il suo partito personale ha vinto il 67% dei seggi in parlamento a Kiev nel 2019, ma ora viaggia al 12% nei sondaggi. Fino a poche settimane fa, Zelensky lavorava per tenere nuove elezioni a marzo: con la legge marziale, sapeva di avere il controllo dei media e delle piazze, mentre nove milioni di rifugiati interni e sei milioni all’estero difficilmente avrebbero potuto votare. Ma Zelensky voleva il voto ora per blindare per altri quattro anni il suo potere e la sua visione di guerra a oltranza fino alla vittoria, invece di rischiare di essere cacciato quando in qualche modo il conflitto dovesse rendere possibili nuove elezioni. Il presidente ha rinunciato al suo disegno solo quando i leader europei gli hanno detto che tenere elezioni irregolari, in queste condizioni, non era compatibile con l’avvio delle trattative per portare l’Ucraina nell’Unione. Ma se c’è qualcosa che questa vicenda rivela è che, a differenza di Putin, né il presidente ucraino né il suo Paese sentono di poter resistere per sempre in una guerra senza fine.
Se questo è quanto accade oltre la frontiera orientale dell’Unione, fa impressione come sia quasi del tutto assente dal dibattito in vista delle europee. Non che non ci si interroghi sull’Ucraina, o sulla Russia. Ciò di cui non si parla o quasi è l’agenda — questa sì esistenziale — che pochi giorni fa Mario Draghi ha reso esplicita. L’ex premier ha detto che la spesa della difesa in Europa è così frammentata che, benché il continente sia secondo solo dopo gli Stati Uniti per investimenti militari, nessuno se n’è accorto: un punto che, peraltro, il neo-governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta sottolinea da tempo. «Così non andiamo da nessuna parte» ha detto Draghi mercoledì scorso, per poi dare un avvertimento tutt’altro che lieve: «O l’Europa diventa un’unione più profonda capace di esprimere una politica estera, di difesa e sulle migrazioni, o temo che non sopravvivrà in altra forma che come mercato unico». Eppure neanche l’ex presidente della Banca centrale europea questa volta sta riuscendo a spezzare il sonnambulismo. I Paesi europei che stanno per rieleggere il loro parlamento comune spendono quasi tutte le loro energie a litigare fra loro sulle regole per controllarsi a vicenda: sulla gestione dei futuri Stati del club (in teoria, inclusa l’Ucraina), sui conti pubblici, sulle politiche migratorie che non ci sono. «La difesa contro i presunti nemici interni assorbe tutte le nostre forze», ha avvertito a uno degli ultimi Ecofin l’economista spagnolo Angel Ubide. Intanto i confini prossimi dell’Europa sono in fiamme.
Negli Stati Uniti, una simile sensazione nell’opinione pubblica — stanchezza e impotenza di fronte alle guerre — sta sicuramente danneggiando Joe Biden e rafforza il fascino della visione isolazionista di Donald Trump. Biden è anche danneggiato dal fatto che le due guerre rendono il petrolio e dunque il carburante più caro per gli americani. «Le compagnie petrolifere — accusa — stanno facendo più soldi di Dio». Ma non bastano questi slogan a spostare i voti. Molto può ancora succedere e gli equilibri si possono spostare di nuovo, anche in positivo. Ma se c’è qualcuno che sta traendo vantaggi politici dalle guerre di questi mesi, non va cercato né in Europa né alla Casa Bianca: i fortunati beneficiari, per ora, sono Putin e Trump.