L’eventuale accordo comporta una modifica costituzionale e un referendum in Ucraina. Putin non ha questi problemi, ma la Russia ha già perso migliaia di soldati
È pieno di personaggi, il trompe-l’oeil di Istanbul che sembra per la prima volta aprire un varco alla fine delle ostilità e a una soluzione negoziata della crisi ucraina. Come in un dramma pirandelliano, dal turco Erdogan all’israeliano Bennett, dal francese Macron all’oligarca russo Abramovich, sono in molti ad aver cercato e avuto un ruolo da mediatori, a conferma che quella che si consuma tra Kiev e il Mar Nero è una vera crisi globale che nessuno può permettersi. L’intesa del Bosforo, ancora troppo fragile e acerba per poterla definire accordo, segna un cambio di passo. Mosca annuncia la riduzione «drastica» delle attività militari intorno a Kiev e Chernihiv, che se suona come la presa d’atto dell’impossibilità di conquistare la capitale, manda tuttavia un segnale di de-escalation. Mentre gli ucraini sottopongono per la prima volta agli invasori un pacchetto concreto di concessioni, nel quale oltre alla «neutralità», cioè la rinuncia a entrare nella Nato, a possedere armi nucleari e a ospitare basi militari straniere, c’è anche un negoziato di 15 anni sullo status della Crimea, che di fatto comporterebbe un congelamento dell’annessione russa. Anche sulle due Repubbliche separatiste del Donbass, gli inviati di Zelensky fanno un’apertura, suggerendo che siano i leader dei due Paesi a discuterne. Proposte definite «costruttive» dal viceministro della Difesa russo Alexander Fomin, il quale apre anche a un’adesione dell’Ucraina all’Unione europea e annuncia che un vertice Putin-Zelensky sarà possibile quando i ministri degli Esteri avranno finalizzato un accordo.
La cautela è d’obbligo. Il segretario di Stato americano Tony Blinken accoglie con molto scetticismo le notizie che vengono dalla Turchia, spiegando di non aver visto «alcun segnale serio» da parte di Mosca, che prosegue la sua guerra di aggressione. E insinua il dubbio che i russi stiano solo prendendo tempo, per rifiatare e riorganizzare una campagna fin qui fallimentare. Reazione che tuttavia non deve impedire di dare una chance allo scenario che si intravede dietro il fumo dei bombardamenti.
La parte più interessante riguarda sicuramente la neutralità dell’Ucraina, che dovrebbe essere garantita da un gruppo di Paesi. I delegati di Kiev hanno già indicato Israele, Canada, Polonia e Turchia. Ma anche Usa, Gran Bretagna, Francia, Germania e Italia potrebbero essere coinvolte. Si tratterebbe di creare un meccanismo simile all’articolo 5 che regola la difesa collettiva della Nato: un attacco contro il territorio ucraino farebbe scattare una risposta automatica da parte dei garanti. I due caveat problematici sembrano però essere la modifica costituzionale necessaria in Ucraina e il referendum al quale andrebbe sottoposto l’eventuale accordo: dopo aver subito tanta distruzione, saranno pronti Parlamento e popolo ucraino a cedere sulla neutralità?
Anche per Vladimir Putin lo schema d’intesa ha alcuni ostacoli. Non certo quelli della Duma o della popolazione, mai un problema per lo Zar. Quanto quelli di una narrazione da rivedere. Otterrebbe la «garanzia di sicurezza», congelerebbe l’annessione della Crimea, lascerebbe una porta aperta al Donbass. Ma il prezzo pagato sarebbe altissimo perfino per un’autocrate come lui, con migliaia di soldati russi morti e un Paese annichilito in una crisi da cui sarà difficile risollevarsi. Comunque andrà, la parabola di Vladimir Putin ha già superato il suo zenit.