19 Settembre 2024

Il piano di Draghi per l’Unione. Ma per raggiungere gli obiettivi, l’ex premier stima che ci sia bisogno di investimenti annuali addizionali da 750-800 miliardi di euro

Con il tono flemmatico che caratterizza i suoi interventi, Mario Draghi ha presentato ieri a Bruxelles il tanto atteso rapporto sulla competitività in Europa. Ma nonostante il tono della presentazione, il rapporto è un grido di allarme con la chiara finalità di scuotere la leadership europea dalla sua paralisi. Il messaggio è chiaro e non è una sorpresa. Le condizioni che hanno garantito la prosperità in Europa non ci sono più e senza un cambiamento di prospettiva l’Unione non sarà in grado di garantire ai suoi cittadini quel livello di benessere di cui hanno fin qui goduto.
Il declino dell’Europa si vede già nei numeri. Il divario con gli Usa è aumentato e gli europei sono oggi il 30% più poveri del loro alleato, soprattutto per via della crescita più debole della produttività. La produttività, in quanto fattore trainante della competitività, è quindi il focus del rapporto. Draghi si chiede come sostenere e accrescere la produttività della Ue in un nuovo contesto caratterizzato dall’inasprimento delle tensioni geopolitiche, da un acceleramento del cambiamento tecnologico e, soprattutto, dalle sfide della transizione energetica. Prosperità, un modello sociale inclusivo e crescita sostenibile sono valori fondanti dell’Unione ma senza un cambiamento di rotta non possiamo più garantirli.
Siamo quindi di fronte ad una emergenza esistenziale e questo è il messaggio essenziale, lanciato ai tavoli della politica europea e direi soprattutto ai ministri che siedono al Consiglio, più che alla presidente della Commissione von der Leyen che il rapporto lo ha commissionato e il cui contenuto non la ha probabilmente sorpresa più di tanto.
Il documento è ricco di proposte concrete e granulari e poggia su due pilastri essenziali. Il primo è il contenuto di una strategia per la competitività, il «cosa»; il secondo, è la modalità con cui metterla in pratica, il «come». Sul «cosa», Draghi sostiene con analisi e dati il cambiamento di strategia che aveva già cominciato ad emergere negli ultimi tempi sia dalle think-tanks europee che da parte politica. Si propongono politiche dell’innovazione che siano attente non solo alla produzione di tecnologia ma anche alla loro commercializzazione, si vede la decarbonizzazione come un’opportunità per la crescita e si pone enfasi sulla sicurezza economica per difendere la capacità industriale dell’Unione. Innovazione e resilienza — è il messaggio — devono quindi essere la chiave per le nuove politiche della concorrenza. I dati e le proposte del rapporto saranno certamente di ispirazione al lavoro della nuova Commissione che ha già accolto la gran parte di queste idee nella lettera di missione che verrà presentata mercoledì dalla presidente von der Leyen.
Più complicato è il «come». Il rapporto è chiarissimo nell’affermare che gli strumenti necessari debbano essere a livello europeo per poter usufruire della scala e in generale dei vantaggi in termini di efficienza e costi di un approccio cooperativo. Inoltre, come era già stato affermato dal rapporto Letta, si argomenta che le politiche industriali di cui abbiamo bisogno, se non eseguite e pensate a livello europeo, distruggerebbero il mercato unico e penalizzerebbero i Paesi con meno spazi di bilancio. Per questo l’Unione deve dotarsi di una governance adeguata, flessibile ed efficiente che permetta di prevalere su interessi nazionali contrastanti e che richiede profonde riforme rispetto a quella esistente. Ma soprattutto, la produzione di questi beni va finanziata con investimenti sia pubblici che privati. Ed è qui il messaggio del rapporto che troverà più resistenze. Per raggiungere gli obbiettivi, Draghi stima che ci sia bisogno di un minimo di investimenti annuali addizionali di 750-800 miliardi di euro, il 4,4-4,7% del Pil dell’Unione nel 2023. Questo numero è enorme e contrasta con l’anemia di investimento privato e pubblico degli ultimi 20 anni.
Molto c’è da fare per incanalare il risparmio privato in investimenti produttivi, ma soprattutto — questo è il messaggio — questa cifra può essere raggiunta solo con un grande contributo dell’investimento pubblico. Come? Riforma del bilancio comune, concentrandosi sulle priorità comuni e maggiore ruolo della Banca europea degli investimenti nel finanziare investimenti a grande scala e alto rischio, ma anche ad essere ottimisti su questo intricatissimo dossier, non basterebbe. L’Unione europea, e qui è la proposta più controversa del rapporto, deve continuare sulla strada intrapresa per il programma Next Generation Eu, i Pnrr, messo in cantiere dopo il Covid e decidersi a emettere debito comune per il finanziamento di priorità comuni. Qui Draghi insiste su un punto molto importante. Il debito comune è lo strumento più adeguato per finanziare progetti a lungo termine ed è essenziale per creare un mercato liquido del debito europeo che è la condizione per avere un mercato comune dei capitali. Quindi il debito comune serve a sostenere sia gli investimenti privati che quelli pubblici.
Il tema del finanziamento non è centrale nel rapporto, ma è chiaro che senza questa mobilitazione di risorse comuni le politiche proposte non hanno gambe. Ma difficile pensare che in questa situazione di incertezza politica, con Francia e Germania quasi fuori gioco, e un’Italia ai margini della politica europea, questo grido di allarme porti ad una discontinuità su un tema così controverso. Questo Draghi lo sa e quindi insiste sull’importanza del partire dalla diagnosi, dall’individuazione dei problemi. Se su questo c’è terreno comune si penserà poi agli strumenti. Quindi nelle prossime settimane ci sarà soprattutto da vedere come il consiglio, espressione delle democrazie nazionali, reagirà al messaggio.
Se il grido d’allarme verrà recepito sarà comunque un passo avanti, ma non credo ci si debba aspettare una forte discontinuità. Una via potrebbe essere quella di accordi tra nazioni su priorità specifiche e contratti à la carte mentre per il finanziamento si potrà forse negoziare di spostare la data della restituzione del prestito Ngeu, magari indirizzandolo verso la spesa per la difesa comune, il tema che i governi trovano oggi più urgente. Soluzione pragmatica che non richiede mettere mano ai trattati, ma anche piena di insidie, come si accenna nel rapporto. È quindi lecito porsi la domanda seguente: se l’Europa è di fronte a un momento esistenziale che richiede una forte discontinuità, ma questo messaggio non è recepito o comunque l’azione necessaria è ostacolata da incentivi politici perversi, dobbiamo aspettarci un forte ridimensionamento sia politico che economico dell’Europa e una drastica riduzione delle ambizioni dell’Unione in tema di integrazione? Saranno le nostre democrazie nazionali sufficientemente vitali e creative per fermare il declino ed esprimere una leadership europea più forte e riformatrice?

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