22 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

Corriere.it

di Paolo Mieli

L’accelerazione dell’avanzata è una buona notizia, anche se la definitiva sconfitta del Califfato è ancora lontana

Bombe su una moschea e su un funerale, attacco a un impianto chimico con sprigionamento di nubi tossiche, civili tra cui molti bambini sequestrati e uccisi con un colpo alla nuca. È l’orrore dei giorni finali dell’Isis in Iraq. Verrà poi il momento di verificare con esattezza dimensioni e circostanze specifiche di queste mostruosità. Ma si capisce fin d’ora che siamo in presenza di qualcosa di terrificante. Per fortuna il primo ministro iracheno Haider al-Abadi e il suo ministro degli Esteri Ibrahim al-Jafari annunciano che le forze impegnate alla riconquista di Mosul «avanzano più rapidamente di quanto si fosse immaginato e previsto».
Finalmente una buona notizia anche se la strada per la sconfitta definitiva del Califfato è ancora lunga: gli eserciti liberatori devono adesso fronteggiare la controffensiva di Kirkuk, risolvere i problemi di Mosul dove una parte della popolazione civile è stata presa in ostaggio dai combattenti islamisti e, successivamente, dovranno occuparsi di Raqqa. Ma va detto esplicitamente che quella dell’accelerazione è un’ottima notizia. Anche se dovessimo, qui in Europa, subirne come conseguenza una serie di attentati da parte di jihadisti in fuga. La pensassimo diversamente, dovremmo ammettere che, pur di salvaguardare la nostra tranquillità, consideriamo accettabile l’essere in vita di uno Stato terrorista. E non possiamo concedercelo. Tra l’altro la storia di due anni e mezzo di Daesh insegna che la sua esistenza non ci ha risparmiato nessun genere di attentato. Anzi.
È però necessario guardare a questi primi successi militari con occhi ben aperti, mettendo in chiaro due dati di partenza. Il primo è che i «nostri» stanno liberando quelle terre con una guerra salutata, quantomeno in loco, dagli applausi di tutti. Compresi coloro che sarebbero tenuti a darsi le sembianze di pacifisti. Qualche giorno fa, Adriano Sofri, in un efficace reportage sull’Unità, dava conto di una veglia religiosa di profughi cristiani rifugiati ad Ankawa in vista della liberazione della loro città, Qaraqosh (il tutto era documentato da fotografie di Neige De Benedetti). Quei cristiani istruiti da una suora — come si vedeva nitidamente dalle foto — ballavano, pregavano, cantavano. In un clima di festosa apprensione esprimevano — presumibilmente nel nome di papa Francesco — tutta la loro gioia per il fatto che qualcuno, sulla via per Mosul, avesse esploso colpi di arma da fuoco contro i jihadisti che due anni fa li avevano dapprima massacrati e poi costretti a lasciare le loro case. Nelle stesse ore, i promotori della marcia Perugia-Assisi — anche loro con ogni probabilità nel nome di papa Francesco — davano alle stampe un comunicato per esprimere «preoccupazione per le guerre e le stragi che si susseguono». Secondo loro, «Aleppo o Mosul non fa differenza!». E ancora: «La guerra è un crimine insopportabile; sempre e comunque; condannare i bombardamenti su Aleppo e inneggiare per quelli su Mosul è un’ipocrisia… A finire sotto le bombe è sempre la povera gente». Tutto bene, faceva osservare Sofri, salvo un dettaglio: quel messaggio sarebbe stato forse più efficace se i pacifisti, invece che in direzione della città di San Francesco, avessero marciato da Perugia ad Aleppo, o a Mosul. Anche in considerazione del fatto che Assisi «per il momento era già al sicuro».
Ma non si tratta solo di questo (beninteso, anche di questo). Più in generale, dovrebbe preoccuparci che nessuno di noi, neanche il Santo Padre, riesca a dotarsi di un’unità di misura che ci consenta di esprimere giudizi coerenti in merito al complicato conflitto che da anni ha incendiato l’area mesopotamica e, assieme a essa, il mondo intero. Il popolo cattolico, gli stessi religiosi pregano per una cosa a Roma o ad Assisi, per un’altra a Sirte, per una terza a Mosul, per una quarta ad Aleppo. Per mettersi la coscienza a posto, basta che tutti, compreso il Santo Padre, facciano poi finta di non vedere la disparità di motivazioni che inducono all’inginocchiamento, al congiungimento delle mani e al segno della croce al di là o al di qua del Mediterraneo. Come non vedere, poi, la differenza tra l’ignobile carneficina di Aleppo e la (per ora) più contenuta offensiva contro Mosul? I pacifisti potrebbero obiettare che anche ad Aleppo, nei primi giorni, la controffensiva siriana sembrava in grado di chiudere il caso in poco tempo. E se i jihadisti di Mosul fossero capaci di resistere casa per casa come quelli di Aleppo, cosa dovrebbero fare i «liberatori»? Rallentare? Lasciar perdere?
Il secondo dato da mettere in evidenza è che noi non sappiamo cosa accadrà se (come auspichiamo) le bombe su Qaraqosh o su Mosul saranno state efficaci e il Califfato islamico verrà spazzato via. È il tema posto con la consueta lucidità da Franco Venturini laddove — qualche giorno fa, su queste colonne — ha ben spiegato come i problemi che si presentano con la battaglia di Mosul siano niente rispetto a quelli del «dopo». Nel senso che riconsegnare una città prevalentemente sunnita a un regime, quello di Bagdad, a dominanza sciita, rischia di riproporre le condizioni che, nell’estate del 2014, hanno determinato la nascita dell’Isis: carneficine sciite a danno dei sunniti e viceversa. Ramadi, affrancata alla fine dello scorso dicembre, è stata il simbolo delle opposte stragi che hanno insanguinato la storia recente dell’Iraq. Stessa cosa a Tikrit e Falluja liberate, come Ramadi, dopo bombardamenti che hanno distrutto tre quarti degli edifici civili… Il capo della polizia dell’area urbana di Kirkuk, Sarhad Qadir, ha spiegato che i civili sunniti «sopravvissuti» nella stagione dell’Isis — spesso sospettati di collaborazionismo — al termine di processi sommari (a dire il vero, molto sommari) vengono giustiziati.
Così può accadere che mentre una parte di questi civili vengono usati dagli uomini di Daesh come scudi umani, dall’altra molti di loro diano volontariamente una mano all’Isis per ritardare le rappresaglie ai loro danni. Tant’è che il generale Fadhil Jalil Al Barwari, destinato a essere il comandante in capo delle truppe irachene che libereranno Mosul, già si affretta a precisare che non ripeterà gli «errori di Ramadi», che allestirà corridoi per consentire ai jihadisti la fuga verso la Siria (!?) e che le milizie sciite saranno tenute a distanza da quella che è stata la capitale del Daesh. Promessa, questa di Al Barwari, simile a quelle fatte a Obama nel 2011 quando l’America ritirò i soldati da Bagdad. Quella volta alle milizie sciite fu poi lasciato campo libero per fare scempio delle comunità sunnite. Adesso, solo un prolungato controllo internazionale sui territori liberati dall’Isis potrebbe garantire esiti diversi da quelli di cinque anni fa. E, ricordiamolo, non può esistere una pace stabile se questo genere di promesse vengono disattese.

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