25 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Giuseppe de Rita

Gli appelli alla partecipazione in vista del voto si infrangono contro il disinteresse di cittadini vagotonici, indifferenti alla vita comunitaria

Dalle più alte magistrature nazionali all’ultimo parroco di periferia si susseguono gli inviti e le esortazioni a non snobbare la prossima tornata elettorale, richiamando o il dovere alla partecipazione democratica o più banalmente l’esigenza di un voto utile.
Nessuno nega l’importanza di tali appelli, ma essi sembrano non del tutto consapevoli del fatto che oggi nel conclamato disinteresse della gente vince una componente né politica né culturale, ma antropologica: abbiamo di fronte un elettorato vagotonico, propenso più a ricaricarsi che a entrare in campo, indifferente a quel che avviene nella vita comunitaria, appiattito sulle proprie scelte personali, quasi prigioniero di un sopore difficile da smuovere: un elettorato senza condivisione di sentimenti collettivi.
Possiamo capirlo: per anni ci siamo spesi tutti i sentimenti politici possibili: la rabbia contro la casta, la delegittimazione della classe dirigente, l’indignazione e la denuncia anticorruzione, lo sputtanamento anche volgare di ogni avversario, il «vaffa» corale ed entusiastico nelle piazze, il plauso alla rottamazione, il moralismo dilagante, la speranza di un uomo o di un governo «forte», la contrapposizione rabbiosa sulla revisione della carta costituzionale, i tanti risentimenti personalistici o di piccolo gruppo, il rancore di quanti hanno sofferto il fermarsi dell’ascensore sociale. E tanto altro. Se un qualche privato cittadino esprimesse un «lasciatemi stare», converrà dire che non avrebbe torto.
Ripercorrendo le campagne elettorali degli ultimi quindici anni si vedrà facilmente che esse sono state condizionate, vinte o perse, non dalla dialettica sulle vicende europee o sulla tenuta dei conti pubblici (richiami troppo razionali per noi), ma dalla strumentalizzazione politica di qualcuno dei sentimenti sopra richiamati. E la stessa congiuntura politica attuale è ancora segnata dagli effetti di quell’onda di rancore collettivo che incise molto sulle elezioni del 2013 e sulla invasiva propensione all’antipolitica. Oggi però quell’onda è in lento riflusso, ma ciò non porta al rilancio di un ciclo empatico, ma piuttosto a un bisogno di restare in una condizione di bassa energia, percorsa da sentimenti indistinti e particolaristici, in un tam-tam di parole vuote che alimenta atteggiamenti quasi regressivi (per ora almeno non depressivi, visto che siamo ancora un Paese sano e vitale).
Non possiamo allora illuderci che bastino facili sollecitazioni al «dovere» civico. Non bastano richiami al civismo, non bastano onnicomprensivi programmi elettorali, non bastano rilanci di moralità pubblica, non bastano ulteriori accentuazioni del protagonismo personalistico, non bastano drammatizzazioni più o meno sincere; ed è verosimile che anche una eventuale fantasiosa dose di fake news non provocherebbe grandi emozioni, perché sarebbe sciolta nell’indifferenza vagotonica del vivere quotidiano. Sarebbe utile invece fare maturare qualche vena nuova di obiettivi, sentiti come comuni, scavandone le radici nei concreti processi della ripresa in atto e nei comportamenti che si muovono in essa (in termini di nuovi lavori, nuovi campi di business, nuovi spazi di mercato internazionale, ecc.) lontani da quelle mirabolanti improvvisazioni tipiche in ogni fase finale delle campagne elettorali. Non annunci droganti quindi, ma, se possibile, un po’ di «vecchio» simposium.

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