Fonte: Corriere della Sera
di Dario Di Vico
Non si può certo dire che prima del sisma l’Italia di mezzo stesse vivendo dal punto di vista economico-produttivo uno dei suoi momenti migliori. Tutt’altro. La lenta e debole ripresa non ha dato ristoro all’ampio tessuto di piccole e medie imprese dell’area marchigiana e umbra, il ristagno dell’intera filiera del mattone non ha consentito di ripartire alle centinaia di aziende locali che vivono sulle costruzioni e sul loro indotto, il turismo non è riuscito in questi anni a decollare veramente per le tante lacune del sistema dei trasporti e per l’incapacità di promozione sul versante dell’offerta. Per tutti questi motivi lo spopolamento che hanno subito i territori appenninici è stato selettivo: ad andarsene sono stati prevalentemente i giovani e comunque le competenze qualificate, a restare gli anziani. Le stesse crisi che hanno investito il settore bancario non possono essere spiegate solo con episodi di mala gestio — che pure si sono verificati — ma chiamano in causa l’economia reale sottostante, le difficoltà delle Pmi di rimettersi in carreggiata.
È evidente che se l’Italia di mezzo viveva in una condizione quantomeno di transizione tra il vecchio e il nuovo con la recessione a fare da spartiacque, il terremoto sta agendo e agirà da moltiplicatore di queste contraddizioni. È fin troppo facile prevedere che rischierà di accentuare la condizione di marginalità di persone e luoghi, di allargare le distanze tra le zone più dinamiche e quelle ad economia residuale e soprattutto di fare terra bruciata delle chance di attrazione del capitale umano. I distretti più specializzati dovrebbero, infatti, avere le gambe per riprendere la corsa laddove l’hanno interrotta come è accaduto in analoghe occasioni in regioni come Friuli ed Emilia, le zone a prevalente presenza di piccole imprese artigiane invece incontreranno certamente enormi difficoltà fino a rasentare una progressiva desertificazione produttiva. Se dovesse andare così saremmo chiamati a scontare la colpa di non aver preso piena e tempestiva coscienza del travaglio di quei territori, del loro disporsi su un piano inclinato e di non esserci applicati per tempo ad aggiornarne il modello, a valorizzarne le potenzialità ma a colmarne i ritardi. Adesso, dopo che la terra si è messa a tremare per giorni e settimane, è evidente che tutto ci appare più arduo e allo stesso tempo urgente.
Servono i soldi, dunque, ma occorrono anche le idee. Senza volersi concedere voli pindarici e immaginare chissà quali nuovi modelli per i territori martoriati delle Marche e dell’Umbria, bisogna però tentare di fare due cose in una: restaurare e innovare. So che un’affermazione di questo tipo si presta all’ossimoro: è il buon senso però che la muove, non altro. C’è innanzitutto un problema di comunicazioni da affrontare, sono vitali per le imprese così come servono alla mobilità «moderna» delle persone. Parliamo ovviamente di comunicazioni fisiche e di connessioni immateriali, di buone strade come di banda larga. Una piccola impresa del Reatino o di Norcia può anche ripartire pensando di mettere i suoi prodotti sulle piattaforme di e-commerce, ha bisogno però di avere una buona infrastruttura di rete. La seconda novità riguarda la cultura imprenditoriale chiamata a innovarsi in tempi rapidi sia nelle formule societarie (le aggregazioni e le reti) sia nel rapporto con le università del territorio e i centri di ricerca. Infine ci vogliono scelte che puntino a stabilizzare il capitale umano, attirino in zona ingegneri e architetti, vedano protagonisti del rilancio i giovani più qualificati.