Fonte: Corriere della Sera
di Valerio Onida
L’orizzonte temporale dell’esecutivo Draghi potrebbe raggiungere ventisei mesi, se si escludono elezioni anticipate. Ciampi, Dini e Monti non hanno superato i diciassette mesi
Il governo Draghi non è il primo ad essere presieduto da una personalità non eletta in Parlamento: lo hanno preceduto i governi Ciampi nel 1993-94, Dini nel 1995-96, Monti (che era senatore, ma non eletto, bensì nominato a vita) dal 2011 al 2013, e da Conte in questa legislatura. Ma i governi «tecnico-politici» di tregua con caratteristiche analoghe a quelle odierne sono stati soprattutto quelli presieduti da Ciampi e da Monti. Il governo Dini infatti ebbe origine politica nel primo governo Berlusconi e il suo protagonista fu successivamente coinvolto nel confronto fra le forze politiche del centrodestra nascente e del centrosinistra in ristrutturazione. I due governi Conte sono stati presieduti da un esponente «neutrale» fra le forze alleate ma in un contesto caratterizzato soprattutto da nuovi rapporti di alleanza fra i partiti nel Parlamento eletto nel 2018.
In realtà la stessa qualifica di «governo tecnico» è discutibile, in presenza di una compagine presieduta certo da un «tecnico» dell’economia di grande rilievo, ma che, al di là delle sue origini in Banca d’Italia (come nel caso di Ciampi), ha svolto un ruolo, come presidente della Bce, altamente «politico» nell’attuale contesto istituzionale dell’Unione europea.
Anche le esperienze del governo Monti e del governo Draghi non sono però assimilabili fra loro, per il contesto politico in cui è avvenuta la nomina e per il tipo di problematica che essi sono stati chiamati ad affrontare.
Ciampi, riconosciuto come tecnico di altissimo livello, ebbe l’appoggio dell’ultima maggioranza politica della cosiddetta Prima Repubblica, composta da Democrazia cristiana, Partito socialista e partiti minori del centro (e per un solo giorno, fino alle dimissioni di tre ministri, dal nuovo partito succeduto al Pci), in un Parlamento in cui tale coalizione raggiungeva a stento la maggioranza e in cui nuove proposte politiche (come la Lega di Bossi) si affacciavano alla ribalta, mentre le inchieste giudiziarie di «Mani pulite» concorrevano a distruggere i vecchi partiti e si andava verso il referendum che ha imposto una svolta in materia di legge elettorale.
Il governo guidato da Ciampi raccoglieva numerosi esponenti non solo di partito: basti ricordare che ne facevano parte ben sei giuristi molto noti che erano stati o sarebbero divenuti in seguito giudici della Corte costituzionale (Leopoldo Elia, Livio Paladin, Giovanni Conso, Fernanda Contri, Franco Gallo, Sabino Cassese, oltre che — per un solo giorno — Augusto Barbera) e altre personalità di grande spicco come, fra gli altri, gli economisti Nino Andreatta e Luigi Spaventa e il costituzionalista Paolo Barile.
Anche il governo Monti rispondeva all’idea del governo tecnico e di tregua, essendo sopravvenuto dopo la caduta della prima maggioranza della Seconda Repubblica, espressa dai primi governi Berlusconi. Ma la sua fisionomia era prevalentemente segnata dai problemi del risanamento del bilancio sotto l’incombere dei vincoli europei: si trattava non tanto o non solo di spendere meglio, quanto di perseguire un migliore equilibrio finanziario, anche attraverso misure di contenimento della spesa: e infatti le sue maggiori realizzazioni furono la riforma costituzionale del 2012 sul cosiddetto pareggio di Bilancio e la riforma del lavoro e delle pensioni che va sotto il nome della legge Fornero.
Proprio il contrario, si direbbe, di quella che appare oggi la prospettiva del nuovo governo. Questo infatti è chiamato, oltre che a guidare in modo efficace la lotta alla pandemia (obiettivo in un certo senso squisitamente anche se non esclusivamente «tecnico»), a programmare e iniziare a realizzare nuovi piani di intervento e di spesa, soprattutto di investimento, con obiettivi di lungo termine, fruendo dei nuovi finanziamenti europei. Questi dovranno rispondere a nuovi criteri di indirizzo della spesa pubblica (non solo di investimento) e di indirizzo delle politiche pubbliche nel campo economico ma anche nel campo sociale, ambientale e della giustizia. Senza dire dell’urgenza di un valido contributo italiano a nuove e lungimiranti politiche comuni, non nazionalistiche ma europee e internazionali, in un mondo sempre più interdipendente (si pensi, fra l’altro, alle politiche migratorie e della solidarietà internazionale).
È immaginabile che queste prospettive suscitino nelle diverse forze politiche un acuto interesse a determinare indirizzi di governo il più possibile conformi ai rispettivi obiettivi di fondo, presumibilmente assai differenziati. L’«unità nazionale» passa senz’altro attraverso l’abbandono o almeno la doverosa e salutare riduzione delle più violente e strumentali contrapposizioni polemiche, ma non può abolire le differenze di ideali e di programmi che caratterizzano la politica nel lungo termine. Così pure ci aspetteremmo che si affrontassero problemi istituzionali e di metodo, da tempo incancreniti, nell’attività di governo e nei processi legislativi e amministrativi (come l’abuso della decretazione d’urgenza o certi eccessi di burocrazia e di centralismo).
C’è infine un ulteriore elemento che differenzia il nascente governo da quelli «tecnici» del passato: la prospettiva di durata. Nessuno dei precedenti governi «tecnici» è restato in carica tanto quanto i diciassette mesi del governo Monti. Ora, l’orizzonte temporale potenziale del governo oggi formatosi potrebbe raggiungere, se si escludono elezioni anticipate, i ventisei mesi. Ma il punto è se questo governo «di tutti» (o quasi) vorrà e potrà darsi una prospettiva così lunga, o se, invece, si guarderà a elezioni anticipate, magari subito dopo varcato il confine del semestre bianco e della elezione del prossimo capo dello Stato (prevista subito dopo la fine di gennaio del 2022).
È evidente che, se si guarda al tempo presumibilmente necessario per cominciare a perseguire gli obiettivi di lungo termine che il nuovo governo si propone, ventisei mesi sono anche pochi. Il punto è se, in presenza di una maggioranza «di tregua» ma che persegua anche obiettivi di lungo termine, l’assetto politico del Paese resterà quello attuale, o si confermeranno e si svilupperanno nuove proposte politiche, alleanze e maggioranze. Questi processi richiedono uno sbocco elettorale, posto che la democrazia parlamentare non può prescindere dall’atto fondamentale del voto, che sottoponga a verifica i processi di evoluzione del sistema politico e il livello del consenso intorno a essi. In questo senso non hanno torto coloro che invocano il voto anticipato il più presto possibile, compatibilmente con le urgenze del provvedere.