La riforma «riformata» dalla Consulta. Serve una via d’uscita politica per evitare un impasse nel Paese
Ora serve una via d’uscita politica. Dopo la sentenza della Corte costituzionale che colpisce a fondo la legge sull’autonomia differenziata, occorre evitare una contrapposizione ideologica che spacchi il Paese. Abbiamo davanti mesi difficili, turbolenze economiche, complesse partite europee, delicate scelte di collocazione internazionale, altre riforme da discutere. Dunque, non possiamo permetterci di andare a impantanarci in una diatriba un po’ folcloristica fra «Nord secessionista» e «Sud assistenzialista». E la strada per uscire dall’impasse non può che passare, vedremo come, per il Parlamento: sì, la nostra assemblea legislativa per troppi anni avvilita dallo strapotere delle segreterie di partito, alla quale la Consulta restituisce infine la sua sacrosanta centralità.
Intanto va registrato che la sentenza e, ancor più, le sue motivazioni pubblicate martedì non si limitano a bocciare numerosi profili essenziali nella legge 86/2024 firmata dal ministro leghista Calderoli: sancendo l’impossibilità di devolvere alle Regioni intere materie anziché singole e ben giustificate funzioni; con lo stop alla cessione di materie strategiche o «europee»; e limiti precisi alle norme generali sull’Istruzione (perché è in gioco «l’identità culturale del Paese»). Le 166 pagine di motivazioni fissano anche principi ineludibili per chi vorrà rimettere mano alla riforma, ammonendo che la Corte continuerà a monitorarne la realizzazione. Ed è forse questa la parte più indigesta per chi, alla fine d’un lungo percorso in bilico fra indipendentismo e federalismo, s’è intestato questa legge fatta con troppa fretta e issata come una bandiera, forse l’ultima.
Dunque, spiegano i giudici, il popolo e la nazione italiana sono «unità non frammentabili». E, no, non esistono «popoli regionali», titolari di una «porzione di sovranità». Sembrano concetti quasi ovvi: ma li credevamo obsoleti, sorpassati dalla babele di pulsioni localistiche e particolarismi rivendicativi in cui s’è trasformata da un pezzo la nostra Italia.La Consulta ce li ricorda, invece, spostando in modo certo involontario gli equilibri politici da qui alla fine della legislatura: perché, al di là delle formule di circostanza, è difficile immaginare che sentenza e motivazioni non producano contraccolpi nel partito che aveva fatto accettare ai suoi alleati con una specie di «all-in» il progetto di un’Italia divisibile in tanti staterelli l’un contro l’altro concorrenti.
La sentenza assume talvolta i toni, certo non voluti, di una dura lezione a una politica disattenta quando non immemore dei suoi compiti e dei nostri valori: per capirci con un esempio, non ci appartiene la Padania dei celti ma il lombardoveneto del Risorgimento. Dunque, l’articolo 116 del titolo V maldestramente riformato nel 2001 da una maggioranza di centrosinistra sotto la pressione della Lega, quell’architrave autonomista su cui si reggeva l’impianto della legge Calderoli, non è una monade: va attuato, certo, ma deve essere collocato nel quadro complessivo della forma di Stato italiana, una costruzione ben più ampia con cui va armonizzato.
E, certo, il regionalismo, pur privo di radici storiche in Italia, è componente fondamentale della nostra Costituzione. All’Assemblea costituente, Meuccio Ruini presentò le Regioni come «l’innovazione più profonda introdotta dalla Carta». Aggiunse che le autonomie locali sarebbero state «un ingrandimento della persona umana». Tuttavia, quest’espansione della nostra umanità può avvenire solo se ci teniamo per mano, connessi in un regionalismo solidale e cooperativo, dove chi ha di più aiuta chi ha di meno, e non in un regionalismo «duale», noi contro di voi, con paratie stagne a dividere gli italiani. I Lep, quei famosi «livelli essenziali di prestazioni» così difficili da calcolare e con i quali garantire diritti civili e sociali dalle Alpi a Lampedusa, non possono essere aggirati con trucchi da azzeccagarbugli. Sono materia viva per il Parlamento, l’unico col compito di comporre la «complessità del pluralismo istituzionale»: proprio quel Parlamento dimenticato nella riforma che, infatti, assegnava le intese sull’autonomia a un tavolo tra governo nazionale e governi regionali, come in una trattativa fra Stati stranieri.
Pur di fronte a motivazioni che rendono la sentenza molto più incisiva di quanto s’immaginasse, i duellanti tengono per ora le posizioni. Calderoli, da navigatissimo politico, mostra buon viso a cattivo gioco («siamo sulla strada giusta, ne farò tesoro») e i leghisti tutti dichiarano, persino a dispetto degli alleati, una certa fretta nel riprendere il percorso.
Così come non molla l’opposizione referendaria, benché la sentenza superi gran parte della materia al centro della consultazione popolare da essa proposta e un referendum dal quorum improbabile sia ormai scivoloso anche tatticamente. Non sarebbe male valutare una strada diversa. E non a caso, forse, la Corte costituzionale cita a parametro il federalismo fiscale «cooperativo», disegnato dalla legge 42 del 2009 e ampiamente inattuato. Quella legge, che incardinava un principio federale in un’idea di equità, era firmata proprio da Calderoli, quarto governo Berlusconi. Rianimarla potrebbe servire da traino per rimettere su binari condivisibili l’intera materia della legge 86/2024. Tanto che il presidente di Svimez, Adriano Giannola, non certo un secessionista, la immaginava (prima della sentenza) al centro di un «lodo riparatore» per sormontare «con eleganza» la più recente e infelice creatura del ministro leghista: con un preambolo perequativo non negoziabile per il superamento della spesa storica, vera croce delle Regioni meno abbienti, e una clausola finale a favore dello Stato. Troppo? Troppo poco? Quanto basta, forse, per evitare guerre identitarie in nome di qualche zero virgola di consenso in più.