Le elezioni in Moldavia e Georgia hanno lanciato un segnale: la Ue è ancora troppo lontana e astratta
Anche uno scampato pericolo può e deve essere motivo di soddisfazione. L’esultanza con la quale gli europeisti di ogni ordine, grado e cancelleria hanno accolto la riconferma di Maia Sandu alla presidenza della Moldavia, appare quindi giustificata. Così come lo era il sospiro di sollievo collettivo che due settimane fa ha accolto la vittoria del referendum per inserire nella Costituzione l’obbligo di entrare nell’Unione europea, passato in zona Cesarini per poche migliaia di voti.
Ma talvolta, esaltare a ogni costo la vittoria di quelli che da questa parte del mondo vengono considerati «i buoni» serve soprattutto a eludere questioni difficili da affrontare. Sandu è stata salvata per due volte dal voto della cosiddetta diaspora moldava, dai residenti all’estero, i quali hanno votato all’ottanta per cento in suo favore e per l’ingresso in Europa, ribaltando l’esito negativo di entrambe le consultazioni registrato sul territorio. A casa sua, la presidente uscente aveva perso, e con lei la mozione europea. Senza l’aiuto degli espatriati, le conseguenze per uno Stato che confina con l’Ucraina e che ha già al suo interno una emanazione della Russia come la Transnistria, sarebbero state disastrose.
La Moldavia continua a essere un Paese con l’anima divisa in due. E dove più ci si allontana dalla capitale, più l’eredità architettonica, linguistica e sociale del recente passato diventa evidente. Anche i tentativi di Mosca di condizionare le scelte dei suoi ex satelliti appaiono chiari. Talvolta, vengono però considerati l’unica causa di realtà o situazioni che non ci piacciono. Come una giustificazione. Lo ha fatto la stessa Sandu. La notte del referendum, quando l’opzione europea sembrava destinata alla sconfitta, aveva denunciato «la più grande frode elettorale della storia». Al mattino seguente, dopo la vittoria di un soffio del sì all’Europa, aveva glissato con un sorriso sulle sue accuse, affermando che avrebbe poi raccolto le prove, sfuggite anche agli osservatori dell’Osce.
È un riflesso pavloviano in voga anche dalle nostre parti. La sacrosanta denuncia delle ingerenze del Cremlino si accompagna spesso alla sottovalutazione dell’eredità lasciata dall’Urss. Ma non cancella una realtà innegabile. L’Europa non è sexy per la maggior parte degli abitanti di questi Paesi. Non attrae. Mentre la Russia se non altro incute timore, l’Europa è un concetto astratto, che la stessa Sandu non ha saputo spiegare bene ai suoi connazionali, facendo cadere dall’alto un referendum simbolico, senza mai illustrare a dovere i vantaggi di una eventuale adesione all’Ue, che hanno già fruttato un miliardo e mezzo di euro in finanziamenti diretti.
Se la risicata vittoria della presidente moldava dimostra che c’è sabbia nel meccanismo di allargamento europeo a est, a torto considerato automatico,il voto in Georgia è quasi una disfatta. Per spiegarla, l’occidente ha scelto la strada più facile, quella della longa manus del Cremlino. E senz’altro a Tbilisi i brogli e le pressioni sul voto sono stati più evidenti che a Chisinau. Ma l’affermazione di Sogno Georgiano, partito dapprima europeista poi diventato filorusso, è stata così netta da affievolire anche la protesta dei giovani della capitale, protagonisti delle grandi manifestazioni della scorsa primavera che tanto avevano illuso noi europei.
Come è potuto avvenire? In un Paese che nel 2008 ha già assaggiato sulla propria pelle i carri armati della Russia, una possibile risposta, valida anche per lo scarso entusiasmo dei moldavi, ha un solo nome. Ucraina. La sorte di quella nazione così martoriata ha un effetto deterrente sugli abitanti dell’ex Urss. Soprattutto nelle fasce di popolazione più anziane, l’Europa è vista sempre più come quella entità indistinta che sta lasciando sprofondare Kiev verso la rovina. Con i soldi dei finanziamenti Ue, non si compra una paura ancestrale. E i peana per una vittoria a metà non cancellano i problemi. Forse, all’Europa servirebbe una riflessione più profonda. Su sé stessa, e sul modo in cui viene guardata nel mondo postsovietico.