22 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Antonio Polito

Nel risultato di domenica c’è qualcosa di più delle doti personali di un leader. C’è anche la mutazione in corso di un partito che si è rivelato molto diverso da quello che nel 2013 elesse per la prima volta Renzi

È la prima volta che un leader sconfitto nelle urne torna al Nazareno, rivincendo le primarie. Nella pur breve storia del Pd, né Veltroni né Bersani si erano ricandidati dopo le dimissioni. E così di solito avviene in tutti i partiti europei che scelgono il proprio leader con una votazione interna.

Renzi invece l’ha fatto e, zero virgola più o meno, ha stravinto. L’ostinazione e la voglia di riscossa che ha dimostrato vanno a suo onore. Tra le qualità richieste a un buon politico c’è anche quella di sapersi scrollare di dosso la polvere e risalire in sella, ed è anzi un peccato che questa abilità sia stata di recente denigrata da molti, Renzi compreso, come prova di attaccamento alla poltrona meritevole di rottamazione. Si vede che il giovane segretario ha doti di resistenza e di fiato maggiori di quelle che in molti pronosticavano dopo la sconfitta al referendum. Mentre i suoi competitori apparivano o troppo simili agli scissionisti (Orlando) o troppo simili ai grillini (Emiliano) per poter parlare al cuore di militanti feriti nell’orgoglio.

Ma nel risultato di domenica c’è qualcosa di più delle doti personali di un leader. C’è anche la mutazione in corso di un partito che si è rivelato molto diverso da quello che nel 2013 elesse per la prima volta Renzi. E non solo per i numeri dell’affluenza: un milione e ottocentomila sono tanti, ma sono pur sempre un milione in meno dell’altra volta, e molti di meno di quelli annunciati domenica sera (è troppo chiedere più trasparenza e rapidità nel contarli?).

Ma soprattutto segnalano un crollo vicino al dimezzamento nelle regioni rosse, un forte calo al Nord e una progressiva meridionalizzazione dell’elettorato piddino. Poi contano le motivazioni. Quattro anni fa il Pd elesse Renzi per vincere, scommettendo sulla sua grande popolarità (fin dalla loro nascita i Democratici non hanno ancora mai vinto una maggioranza parlamentare alle elezioni). Stavolta invece il Pd ha scelto Renzi nonostante questi abbia già perso la sua prova più importante, il referendum, e pur sapendo che l’impopolarità accumulata in tre anni di governo può farlo perdere ancora (ammesso che qualcuno possa mai vincere le prossime elezioni, visto lo scempio di sistemi elettorali che è stato fatto negli anni).

Si può insomma dire che per la prima volta nella sua storia di amalgama mal riuscito, e anche al di là delle convenienze del momento, il Pd sia stato davvero conquistato da un leader, che infatti ora gli chiede lealtà perinde ac cadaver («Basta polemiche fino al 2021»). Al punto che più che un partito comincia a somigliare a un movimento elettorale, il cui programma politico in definitiva è portare voti al Capo. Come En Marche in Francia ha le stesse iniziali di Emmanuel Macron, il leader per cui è nato, anche il Pd un giorno potrebbe diventare MR («Movimento Renziano», o se preferite, «Mi Ricandido»)?

Questo processo rafforza certamente Renzi, ma indebolisce il Pd. Perché avviene ad alcune condizioni. La prima è la rimozione totale, come se fossero frutto di un destino cinico e baro, delle sconfitte che segnano la storia del leader: del referendum non si parla proprio più. La seconda condizione è una certa vaghezza programmatica: non è chiaro neanche agli elettori dei gazebo che cosa abbia in serbo il loro segretario su alleanze politiche, riforma elettorale, legge di Bilancio, crisi Alitalia, rapporti con l’Europa. E la terza e ultima condizione è una tale identificazione con il Capo che risulta difficile immaginare che cosa possa essere il Pd quando, un giorno lontano, non fosse più di Renzi (e infatti la sensazione è che i nostalgici della forma-partito alle primarie non ci siano proprio andati, se è vero che tutti i votanti di stavolta sono più o meno lo stesso numero dei votanti del solo Renzi la volta scorsa).

La sfida politica italiana si mette dunque quasi naturalmente su binari elettorali, perché il voto è da oggi la ragion d’essere delle due più grandi forze politiche che si fronteggiano nei sondaggi, il Pd e i Cinque Stelle. Non è chiaro se Renzi giocherà d’azzardo per ottenerlo il più presto possibile, in autunno, al culmine del ciclo elettorale franco-tedesco, contando sull’effetto trascinamento delle probabili sconfitte dei partiti populisti a Parigi e a Berlino, né è chiaro se, provandoci, ci riuscirebbe. Ma è chiaro che da ora in poi il Pd avrà in mente solo quello, perché a quello sono servite le primarie.

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