23 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

amministrative

di Feruccio De Bortoli

Se si vuole vincere disaffezione e astensionismo forse è il momento di discutere di programmi concreti. Con un’avvertenza. Inutile promettere ciò che un sindaco saggio e ragionevole sa di non poter mantenere

Tra primarie, gazebarie, rotture e sospetti, si è ormai definito il quadro delle candidature per le amministrative di giugno. A volte si ha l’impressione che gli aspiranti sindaci si occupino di tutto meno che dei destini del loro comune. Non sono poche le candidature di dispetto, se non di vendetta o di semplice bandiera.
Ma se si vuole vincere disaffezione e astensionismo forse è il momento di discutere di programmi concreti. Con un’avvertenza. Inutile promettere ciò che un sindaco saggio e ragionevole sa di non poter mantenere. Dannoso lanciare idee su redditi di cittadinanza con i bilanci già dissestati. Ingannevole prefigurare
un futuro di servizi municipali scandinavi quando le strade sono piene di buche e di spazzatura.
Il miraggio della gratuità, poi, è semplicemente diseducativo. Un buon sindaco può fare molto per la sua città, ma è difficile che muti i destini di un Paese o incida sul processo di globalizzazione. Fa una certa tenerezza leggere nel piano strategico della città metropolitana di Reggio Calabria la promessa di felicità per i propri cittadini. Suscita persino simpatia il movimentismo planetario del sindaco di Messina che se ne va in giro con la maglietta «Free Tibet», evidentemente preoccupato di attirare investimenti cinesi in Sicilia.
La definizione che diede Gabriele Albertini di se stesso quando era sindaco di Milano («Sono un amministratore di condominio») era eccessivamente riduttiva. Un sindaco capace può innovare la politica meglio di chiunque altro e aspirare, con una buona gestione e nuove idee, a guidare un Paese. Ci provarono Rutelli e Veltroni. Ci è riuscito Renzi. Ci riuscì Chirac a Parigi. Ci proverà Johnson a Londra. Ci ha pensato, ma solo per un po’, Bloomberg a New York. Pragmatismo e concretezza sono qualità irrinunciabili. I programmi devono essere giustamente ambiziosi, densi di principi e valori, ma è assai improbabile che, anche il più importante municipio del Paese, possa mutare i destini di una guerra e battere il riscaldamento climatico.
Un’idea non disprezzabile potrebbe essere quella di impegnare gli aspiranti sindaci a sottoscrivere una sorta di patto civico. Non un contratto, per carità. Già fatto, con gli esiti che sappiamo, ai tempi di un Berlusconi trionfante. No, solo un impegno morale, su alcuni punti che tocchino da vicino la vita quotidiana degli abitanti di metropoli chiamati a pagare, in questi anni, un aumento del tutto anomalo delle imposte locali, nonostante la detassazione della prima casa.
Il primo aspetto riguarda il debito. Roma è un caso particolare. Il debito storico è di poco superiore a 13 miliardi e, dopo aver raggiunto un massimo di 22 miliardi, è stato trasferito, con il decreto 112 del 2008, a una gestione commissariale. Ogni anno lo Stato, cioè tutti gli italiani, versa 500 milioni per la gestione del debito romano, 200 dei quali raccolti con le addizionali locali della capitale (aumentate più che altrove). Ma il deficit del Campidoglio viaggia sempre intorno al mezzo miliardo l’anno. Circa il 10 per cento delle sue entrate. Si può fare qualcosa? Sì, si deve fare. Il debito di Milano è di poco inferiore a 4 miliardi, quello di Torino sotto i 3. In entrambi i casi in discesa.
Sarebbe lodevole se tutti i candidati sindaci delle città assumessero l’impegno formale non solo a non aumentare i debiti, ma a ridurli gestendoli nel modo migliore. Una politica più attenta e responsabile sul debito avrebbe due effetti. Uno morale: non si aumenta il fardello a carico delle future generazioni. Uno pratico: si possono liberare risorse utili per investimenti e servizi.
Il patto civico, o di responsabilità, chiamatelo come volete, potrebbe essere arricchito da altre clausole, non secondarie. L’equilibrio di bilancio dovrebbe essere realizzato per legge. Nel senso della parità tra entrate e uscite. Ma considerare i dividendi straordinari delle partecipate come entrate regolari, appare una forzatura. Legittima, ma lontana dalla scelta che farebbe un «buon padre di famiglia» attento alla conservazione del suo patrimonio. Gli oneri di urbanizzazione dovrebbero essere utilizzati integralmente per sostenere gli investimenti. La deroga a coprire spese correnti, con quegli incassi, è assai discutibile, anche se maledettamente necessaria per chi deve far quadrare i conti.
E ancora: in tutte le città, con notevoli differenze però, uno degli argomenti più discussi e popolari riguarda la copertura delle buche. Ebbene, se venisse rispettata la destinazione per legge di metà delle multe (art. 208 del codice della strada) avremmo la migliore delle reti viarie, più controlli, più sicurezza. In realtà, quei proventi vengono utilizzati per coprire altre spese. Necessarie, per carità. Ma al cittadino è stato detto che le multe servono a pagare anche la sua sicurezza, non sono la pesca a strascico della tesoreria comunale.
La lista potrebbe allungarsi, ma meglio fermarsi qui. Un patto civico di buon governo delle città sarebbe una forma di rispetto nei confronti dei cittadini chiamati al voto. Un’opera di sensibilizzazione dell’opinione pubblica sulle difficoltà, a volte insormontabili, nella gestione di Comuni allo stremo finanziario, impegnati ad affrontare i costi della modernizzazione e dell’invecchiamento della popolazione. Un semplice patto morale che darebbe credibilità maggiore ai candidati più responsabili e preparati, ridurrebbe la insopportabile distanza tra istituzioni e cittadini. Serietà e pragmatismo, in campagna elettorale, non è detto che funzionino peggio del funambolismo degli annunci. Gli elettori più avveduti (la maggioranza) sapranno tenerne conto.

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