21 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Riccardo Franco Levi

Erdogan chiede chiarezza all’Europa: bisogna riconoscere insieme che le reciproche strade non possono incontrarsi e trovare un’intesa su altri livelli

Incalzata dal candidato socialdemocratico Martin Schulz nel corso dell’unico dibattito televisivo della campagna elettorale per le imminenti elezioni, la cancelliera tedesca Angela Merkel ha dichiarato che «è chiaro che la Turchia non dovrebbe diventare un membro dell’Unione Europea».

Il presidente turco Recep Erdogan ha reagito con rabbia, sfidando apertamente i leader europei a fare «quello che ritengano necessario» se davvero non intendono continuare ad avere rapporti con il suo Paese. Ma la cancelliera Merkel è nel giusto. Questa Turchia, la Turchia di Erdogan che imprigiona gli oppositori, strangola la libera stampa, soffoca il libero dibattito, stravolge la costituzione in senso autoritario, non ha le carte in regola per fare parte della nostra libera, democratica Europa.

Già da tempo la Commissione Europea, l’istituzione «garante» dei Trattati, ha congelato i negoziati per l’adesione. La cancelliera tedesca chiede ora di fare di più e promette di parlare agli altri capi di Stato e di governo dell’Unione in occasione del prossimo Consiglio Europeo, a fine ottobre, così da arrivare ad una «posizione comune» per «porre fine» al processo negoziale.

Non sarà facile, perché una simile decisione potrà essere presa solo se saranno d’accordo tutti i Paesi membri dell’Unione. Tuttavia, il punto vero non è questo. Quand’anche fosse pienamente riportata alla democrazia, la Turchia non può entrare, non può essere ammessa ad entrare nella Ue. Non perché non rispetta i criteri — primo tra tutti «la presenza di istituzioni stabili che garantiscano la democrazia, lo stato di diritto, i diritti dell’uomo, il rispetto delle minoranze e la loro tutela» — per essere accolta nell’Unione. Né, men che meno, perché non è un Paese cristiano.

La Turchia, Paese membro e avamposto orientale della Nato, è ormai a pieno titolo una grande potenza regionale che per dimensione, collocazione geografica, forza militare, proiezione internazionale, interessi economici e strategici, non può accettare di contenere le proprie aspirazioni e ambizioni nel quadro definito dagli interessi condivisi dai Paesi europei. Come tale, essa si colloca stabilmente, naturalmente, intenzionalmente al di fuori dell’Europa. Solo riconoscendo questo stato di grande potenza regionale e basando su questo un rapporto tra pari l’Europa può e deve risolvere la questione turca, trascinata nell’ambiguità sin dal 1959, quando la Turchia fu uno dei primi Paesi che cercò una stretta collaborazione con l’allora giovanissima Comunità economica europea.

Ormai sono trascorsi quasi sessant’anni, durante i quali il pendolo è oscillato tra chi voleva la Turchia nell’Unione come ponte strategico, culturale e religioso tra Europa e Islam, e chi, proprio in quanto Paese musulmano non la voleva nell’Europa dalle radici cristiane, e nutriva crescenti dubbi sulla convenienza di una partecipazione a pieno titolo della Turchia alla vita delle istituzioni e ai programmi economici dell’Unione. Una lunga storia segnata da troppe disinvolte promesse e malposte illusioni, non sanate ma, se possibile, accentuate negli anni più recenti: nel 1999, quando alla Turchia fu ufficialmente riconosciuto lo status di «paese candidato destinato ad aderire all’Unione in base agli stessi criteri applicati agli altri Stati», nel 2005, quando si aprirono i negoziati per l’adesione, e, infine, proprio lo scorso anno, quando fu raggiunto un accordo in base al quale la Ue «comperò» la collaborazione di Ankara per bloccare il flusso di emigranti, soprattutto siriani, che attraverso i Balcani cercavano un rifugio in Europa. Che questa commedia degli equivoci finisca. Erdogan su un punto ha ragione: nel chiedere finalmente chiarezza. O dentro o fuori.

È ora che Europa e Turchia — sedendosi onestamente a un tavolo negoziale in qualche momento eventualmente esteso pure alla Nato — riconoscano, in un rapporto tra eguali e senza che a decidere sia una delle due parti da sola, che le proprie strade non possono e non debbono congiungersi, che insieme si dovranno trovare le forme di un rapporto importante e ricco di contenuti ma diverso dall’adesione all’Unione. Un rapporto che potrebbe finire per assomigliare più a quello con la Russia di Putin che a quello con il Regno Unito che ha scelto la Brexit.

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