22 Novembre 2024

Di fronte al programma delirante di Hamas che infiamma l’Islam radicale, l’Occidente deve puntare a una vittoria che possa essere condivisa con gli sconfitti

Se a scrivere la storia sono orrori dei quali è ignobile stilare classifiche, è l’approccio ad essi che fa la differenza: specie in quel campo di battaglia globale che è ormai la quotidianità al tempo della Rete. Sicché la cappa di blackout nelle comunicazioni calata dagli israeliani su Gaza sotto attacco e, per converso, le bodycam indossate dai miliziani di Hamas durante il pogrom del 7 ottobre ci parlano. E ci dicono molto sugli effetti di un elemento decisivo nella formazione del consenso dentro le opinioni pubbliche: la riprovazione o il sostegno morale. Nel nostro universo valoriale, forgiato dalla cultura giudaico-cristiana e dai Lumi, e approdato tra mille convulsioni alle democrazie liberali del Novecento oggi gravemente a rischio, c’è una linea rossa immaginaria ma ben marcata, che nulla ha a che vedere con quelle tracciate spesso senza costrutto ai tavoli dalle diplomazie.
Dunque, poco cambia per noi se l’ospedale Shifa è usato anche quale comando operativo dei terroristi islamici, che si mescolano alla popolazione civile nelle case e nelle scuole facendosene scudo; se il missile sull’ospedale Al-Ahli Arab veniva dalla Striscia; se le vittime di questa prima fase sono davvero ottomila o assai meno; e se Gaza è una «prigione» che avrebbe un lato aperto ove gli egiziani non lo tenessero ben serrato per ovvie ragioni di stabilità e sicurezza. Ciò che per noi resta insopportabile — così salvandoci, in parte — è il pianto dei bambini e delle madri, sono le barelle grondanti sangue, le macerie fumanti di esistenze distrutte a Jabalia, i medici palestinesi che chiedono acqua e luce per pazienti in agonia e neonati nelle incubatrici. Convinti come siamo che chi salva una vita salva il mondo intero e certi che nessun uomo sia un’isola, viviamo come un conflitto interiore ogni evento bellico, anche se generato da motivi di autodifesa, come nel caso di Israele sin dalla sua fondazione. Se i social ce ne avessero mostrato le immagini live, difficilmente avremmo retto al bombardamento di Dresda, pur consapevoli che il vero responsabile di quella carneficina non era altri che Hitler.
E, sì, c’è un elemento di ipocrisia inscritto nella nostra storia di occidentali civilizzati con settecentomila coloni ebrei piantati in Cisgiordania. Ma al contempo sarebbe miope vedere solo la «protezione delle operazioni di terra», come dichiarato da Tsahal, nell’interruzione di tutte le comunicazioni imposta durante i primi, terribili giorni di irruzione a Gaza. C’è, anche se nessuno lo ammetterà per adesso, la prova di un elemento di insostenibilità: le sofferenze dei civili palestinesi, ove fossero per intero squadernate in Rete ora dopo ora in tutta la loro evidenza. Sono lacrime di coccodrillo? Certo. Eppure, troviamo conforto nell’empatia di «Valzer con Bashir» o nella saggezza di Amos Oz contro fanatici e fanatismi. Ripiegati nell’autoanalisi, convinti che l’essenza del tragico non stia nel conflitto tra ragione e torto ma in quello tra più ragioni, siamo più complessi di come ci raffigurano i predicatori islamisti. I quali, tuttavia, hanno capito benissimo che questa nostra complessità è una loro arma in più, che la nostra umanità ci paralizza ed è loro alleata. Che, allontanandoci a mano a mano dal ricordo del 7 ottobre, ci risulterà sempre più difficile sostenere il sacrosanto diritto di Israele alla propria esistenza e a una risposta militare di fronte alla più grande strage di ebrei dai tempi della Shoah.
Per Hamas, e in generale per il terrorismo messianico, vale una narrazione perfettamente rovesciata. E lo provano appunto le bodycam, quelle piccole telecamere che gli assassini avevano indossato per filmare, nell’invasione dei kibbuz, donne incinte sventrate, bambine violentate, uomini bruciati vivi, pacifisti massacrati al rave nel Negev, vecchi torturati nelle case, lo scherno dei cadaveri, il calvario di Shani Louk. Questo, e assai di più, è il materiale che proprio i miliziani di Hamas hanno messo in Rete. Ne conosciamo le imprese perché essi stessi volevano renderle note. L’orrore cambia valenza. Se di qua è colpa da nascondere, di là diventa spot da celebrare: gli infedeli si possono punire, l’entità sionista può essere annientata. Non si capirebbero altrimenti, se non con questo corto circuito politico-religioso, le manifestazioni di giubilo diffuse in tutte le piazze arabe. Occorre invece un supplemento di tossico autolesionismo per spiegare l’indulgenza, quando non l’esplicito consenso, che le stragi al Sud di Israele hanno prodotto anche nelle piazze e nelle università occidentali, e in certi cortei dove si è gridato «Palestina dal Giordano al mare» (cioè, senza ebrei) e dove ci si è raccolti attorno a una piattaforma in cui era scritto che «il 7 ottobre il popolo palestinese ha mostrato di esistere ancora».
C’è, prendiamone atto, una parte di mondo che pesa le vite diversamente. Chi proprio non volesse comprenderlo, ascolti il leader di Hamas, Ismail Haniyeh, nel video diffuso dal suo comodo rifugio a Doha, in Qatar, ben lontano dal campo di battaglia: «Abbiamo bisogno del sangue di donne, bambini e anziani palestinesi per risvegliare dentro di noi lo spirito rivoluzionario, per risvegliare in noi la sfida». Sembra il delirio d’un pazzo, è invece un programma che infiamma l’Islam radicale (la caccia all’ebreo in Daghestan può essere un terribile campanello d’allarme) e davanti al quale l’Occidente ha davanti un sentiero stretto: difendersi, senza perdersi. La vera sconfitta americana del Duemila non è stata il crollo delle Torri, è stata Guantanamo. Per placare i nostri demoni, la vera vittoria non può che essere condivisa con gli sconfitti. Non è un ossimoro, anche questo è un programma, che va dissepolto dall’odio stratificato. Nel 1919 Chaim Weizmann ammoniva che «non da conquistatori» sarebbero dovuti entrare gli ebrei in Palestina: «Noi che siamo stati oppressi non possiamo opprimere». Trent’anni dopo sarebbe diventato il primo presidente d’Israele.

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