20 Settembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Francesco Giavazzi

Le idee di un polo universitario e un terminal per le merci. L’appello a Piano e Baratta


L’«aqua granda» di martedì è stata accompagnata da una liturgia di lamentele. Bisogna invece chiedersi perché, a mezzo secolo dall’alluvione del 1966, nulla sia cambiato. Nel 1966 Indro Montanelli già denunciava su queste colonne l’incapacità della classe dirigente della città di affrontarne i problemi. Oggi, dopo aver speso oltre 6 miliardi di euro per costruire un’opera già in degrado sul fondo della laguna, la città è di nuovo sommersa da una marea di un metro e novanta. Il sindaco Brugnaro dice che Venezia si sta giocando la sua «credibilità internazionale». Temo che sia già persa: le fotografie di navi lunghe anche 300 metri e oltre 30 di altezza, che imboccano il canale della Giudecca virando a poche decine di metri dalla basilica di San Marco, l’hanno già compromessa. Ma non sono le lamentele che salveranno Venezia.

La necessità di un progetto
Venezia ha bisogno di un progetto, senza il quale non avrà un futuro. La pressione del turismo, una lebbra che ha espulso dalla città d’acqua i suoi abitanti, non si arginerà senza un progetto forte, che può essere complementare, non alternativo al turismo. Qualche tentativo c’è stato, tutti naufragati. Paolo Costa, l’ex-presidente del porto, voleva costruire di fronte a Venezia, in mezzo all’Adriatico, un terminal per le merci che arrivano in Europa dall’oriente, con un retroterra di servizi che si sarebbe esteso a buona parte del Veneto orientale. Un progetto che io stesso in passato ho criticato perché rischiava di essere troppo invasivo per una città così fragile, ma comunque un progetto forte. L’ex-rettore di Cà Foscari, Carlo Carraro, voleva trasformare la città, o almeno alcuni suoi sestieri, in un campus universitario, popolato di studenti e ricercatori, un unicum al mondo. In fondo anche il Mose avrebbe potuto essere un tale progetto. In un mondo in cui la difesa delle città dall’innalzamento dei mari è diventata una priorità comune a tanti Paesi, il Mose avrebbe potuto essere il prototipo. Invece giace abbandonato in fondo al mare sconfitto dalla burocrazia e dalla corruzione. Il solo che è riuscito a portare a compimento con successo il suo progetto è Paolo Baratta: la sua Biennale è l’unica realizzazione «veneziana» di cui esser orgogliosi in tutto il mondo.

Progettare il futuro
I privati da soli non sono in grado di elaborare un tale progetto: troppo divergenti sono gli orizzonti temporali che separano attività a costo zero e rendimento immediato elevato, come servire 30 milioni di turisti, da attività a rendimento differito, come un porto o l’università. Progettare il futuro è il compito della politica. Ma a Venezia la politica è morta, prova ne sia il fatto che né il Pd né la Lega oggi hanno un candidato da opporre al sindaco Brugnaro che fra nove mesi verrà rieletto per assenza di contendenti. Può lo Stato italiano abbandonare Venezia? Non si tratta di soldi, ne sono stati distribuiti fin troppi, ma di idee. Forse il nostro punto di riferimento, il Quirinale, se non fosse quotidianamente impegnato a tenere insieme un Paese diviso e sconquassato, potrebbe chiedere a persone come ad esempio Renzo Piano e Paolo Baratta di rifletterci.

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