Fonte: Corriere della Sera
di Goffredo Buccini
Un governo riformista non può non riprendere il lavoro iniziato da Giuliano Amato per arrivare al riconoscimento dei musulmani italiani in cambio dell’adesione ai principi della nostra Costituzione
L’ Islam italiano diventa una sfida sempre più difficile da eludere per un governo riformista. L’azzardo di tenere un milione e seicentomila fedeli in gran parte confinati a pregare dentro garage e cantine, spesso guidati da imam fai-da-te con sermoni in arabo fuori controllo; il paradosso della seconda religione praticata nel Paese che tuttavia, a differenza di altri culti, non trova ancora un’intesa con lo Stato; la piaga (documentata dal Corriere) di migliaia di studentesse d’origine islamica che vivono accanto a noi e che — a differenza dei coetanei maschi — vengono ritirate dalla scuola alla soglia dell’adolescenza perché vittime di un pregiudizio di genere ancora molto pesante nelle loro famiglie; in generale la zona d’ombra che tuttora lambisce tanti nostri connazionali di fede musulmana: tutti questi sono elementi di un teorema che va affrontato e risolto non per astratto buonismo ma per una assai pragmatica volontà di garantire una migliore coesistenza tra cittadini di religioni e culture diverse, sterilizzando diffidenze che alla lunga trasformerebbero i nostri quartieri e le nostre periferie in laboratori di rancore non dissimili dalle banlieue francesi.
Qui non va usata a casaccio la parola riformista. L’ultimo ad aver tentato di mettere attorno a un tavolo tutti i pianeti e i satelliti di quella variegata galassia che compone l’Islam italiano è stato Giuliano Amato, tra il 2006 e il 2008. Il giurista Carlo Cardia ha raccontato di recente come nacque e come andò quel tentativo da lui stesso coordinato su incarico dell’allora ministro dell’Interno del secondo governo Prodi. Scaturì per reazione a una sortita antisemita dell’Ucoii, la più forte organizzazione delle comunità islamiche italiane (allora ritenuta assai vicina alla Fratellanza musulmana), e condusse, dopo un anno intenso di incontri e scontri tra le parti in una stanza del Viminale, alla creazione di una Carta dei valori, una mappa di convivenza tra «noi» e «loro» che sottintendeva un accordo politico sostanziale: il riconoscimento dell’Islam italiano, il supporto (normativo e anche finanziario) all’emersione delle moschee, in cambio di una esplicita adesione a elementi costitutivi della nostra cultura e del nostro patrimonio identitario come libertà, tolleranza, uguaglianza uomo-donna. Il tentativo, reso impervio dalle molte anime dell’Islam e dalla loro riluttanza a federarsi lasciandosi ricondurre ad una sola voce, andò in crisi quando l’Ucoii non sottoscrisse la Carta. E si arenò quando, caduto il governo Prodi, Amato lasciò il Viminale: perché molto viveva della sua sapienza politica e del suo prestigio.
Otto anni dopo ci sono nuovi elementi da considerare. Innanzitutto, l’urgenza. Allora non c’era una percezione nemmeno lontana dell’angoscia che il radicalismo islamico fomenta oggi nella nostra società: dunque stringe il tempo a disposizione per sottrarre nelle comunità islamiche forze e consenso a questo radicalismo. In secondo luogo, gli interlocutori. Perché se è vero che gli islamici italiani continuano a essere una galassia attraversata da un atomismo quasi irriducibile, è altrettanto vero che proprio la recente stagione del terrorismo ha indotto molti leader delle comunità a un riposizionamento più esplicito. E il cambiamento più visibile forse sta proprio nella leadership dell’Ucoii, oggi affidata al giovane Izzedin Elzir, che si è distanziato da derive fondamentaliste e manifesta attenzione alle storture derivate dalle discriminazioni di genere (sia pure attribuendole a sottocultura e non a tradizionalismo religioso).
Matteo Renzi, distogliendosi da qualcuna delle schermaglie tattiche da cui è assediato, non dovrebbe sottovalutare l’opportunità strategica di riprendere il testimone lasciato da Amato, costi quel che costi nei sondaggi. Proprio la sua attenzione alle specificità italiane dovrebbe indurlo a capire che l’Italia può — e deve — trovare con i suoi cittadini musulmani una strada originale, diversa dal disastroso multiculturalismo inglese e dall’asfittico assimilazionismo francese. È la strada di un patto che comporti l’emersione dagli scantinati e (la Lega se ne faccia una ragione) la nascita (persino) di moschee di quartiere: dove però si predichi in italiano e gli imam seguano un percorso chiaro e verificabile. Dignità in cambio di regole, senza sconti. Lotta culturale all’integralismo in cambio di sostegno a chi vuole dialogare, spingendo sempre più le comunità a dotarsi di una voce sola. Non tocca ai riformisti e ai laici italiani chiedere ai cittadini musulmani una rilettura critica del Corano: un’autoriforma che, se mai verrà, dovrà avere tempi e modi che naturalmente sono nelle mani dei musulmani medesimi. Ma incentivare la lettura consapevole della nostra Costituzione, esigendo la sincera adesione ad ogni suo articolo, sì, questo si può fare già domani.