21 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Paolo Lepri

I vecchi metodi con cui è stata scelta la nuova presidente della Commissione hanno prodotto anche risultati politici che potrebbero diventare il suo punto di forza. Nonostante l’elezione con soli nove voti di scarto


Se è vero che «il segreto della libertà è il coraggio», come ha detto ieri Ursula von der Leyen richiamandosi all’antica Grecia di Tucidide e Pericle, la nuova presidente della Commissione dovrà averne molto durante il suo mandato. Questa è una delle poche certezze in un momento così tormentato del progetto europeo. All’ex ministra della Difesa tedesca non mancano esperienza e determinazione. Ma potrebbero non essere sufficienti.
Perché diciamo questo? Perché il terremoto politico che ha fatto tremare la casa comune avrebbe forse richiesto interventi di emergenza e non una sostanziale assuefazione allo status quo. Si trattava in primo luogo di riavvicinare l’Europa ai cittadini, di intervenire in campi — dall’occupazione alla sicurezza — nei quali la gente si è sentita abbandonata. Bisognava rafforzare la legittimità democratica. Tutto questo non è avvenuto. Il fatto che le elezioni di maggio abbiano premiato meno del previsto le forze antagoniste non sarebbe dovuto rimanere soltanto una provvisoria consolazione per i (quasi) vincitori. Il classico respiro di sollievo è durato troppo.
Tutto è rimasto come prima. Von der Leyen è stata scelta con il consueto metodo. Il predominio dell’intergovernativismo non è stato intaccato. E’ stata sconfessata l’unica innovazione minore partorita negli anni passati, cioè l’indicazione agli elettori dei capilista candidati alla guida della Commissione. L’impressione generale rimane quella di una poco trasparente manovra di palazzo.
Paradossalmente, però, questi vecchi metodi hanno prodotto anche risultati politici che potrebbero diventare il punto di forza della donna scelta per succedere al lussemburghese Jean-Claude Juncker. Innanzitutto, anche se il suo nome non è uscito dal cilindro di Angela Merkel ma da quello di Emmanuel Macron , Ursula von der Leyen non ha alle spalle un paese piccolo come è accaduto nell’ultimo quarto di secolo (a parte l’eccezione non irrilevante di Romano Prodi). La sua leadership ne può guadagnare autorevolezza. Sarà più autonoma, forse, di molti dei suoi predecessori. Nonostante la sua elezione con soli nove voti in più del necessario che ha provocato un caso, in Italia, per l’appoggio determinante venuto dai parlamentari 5 Stelle.
Proprio le divisioni che hanno attraversato i gruppi politici (in primo luogo il grande malessere dei socialdemocratici tedeschi, che si chiama in realtà nostalgia dell’opposizione), hanno obbligato l’ex protetta della cancelliera a lavorare su un programma concreto in qualche modo lontano dalla ricerca di un acrobatico equilibrio tra le priorità dei governi: patto per le migrazioni, tutela dell’ambiente, investimenti pubblici, salario minimo, difesa dello stato di diritto, rafforzamento delle competenze legislative dell’Europarlamento. Le fratture e le ricomposizioni nelle famiglie politiche tradizionali, provocate dalla sua candidatura, possono essere un elemento positivo nella dialettica ingessata cui siamo stati per troppo tempo abituati . Per questo von der Leyen è stata ieri su molti temi molto più chiara che nelle prime dichiarazioni. E se vogliamo iniziare a misurare il coraggio, diversi passaggi del suo discorso non sono sembrati rituali. «In mare — ha detto — c’è il dovere di salvare le vite e nei nostri trattati e nelle nostre convenzioni c’è il dovere legale e morale di rispettare la dignità di ogni essere umano». Tutto lascia sperare, però, che la sua Europa non voglia più lasciare soli i Paesi che, come l’Italia, si sono trovati in prima linea davanti all’ondata di arrivi dei dannati della terra.
Non può essere certamente sottovalutata, inoltre, la novità che una donna sia stata eletta per la prima volta alla guida della Commissione di Bruxelles. Anche questo sarà, in ogni caso, un elemento di forza. In Germania si diceva nei mesi scorsi che Ursula von der Leyen puntasse alla segreteria generale della Nato o all’incarico di Alto rappresentate per la politica estera. E arrivata invece in un posto dove potrà continuare, a livello europeo, il lavoro compiuto nel governo di Berlino per introdurre le quote di genere e colmare il divario retributivo tra i sessi. La promessa di respingere i nomi proposti dai governi per la sua squadra, se il numero di uomini sarà eccessivo, è un impegno che potrà fare molto bene, più in generale, all’indipendenza dell’esecutivo comunitario.
Non è quindi un caso che Ursula von der Leyen abbia dedicato proprio ad una donna — la liberale francese Simone Veil — un passaggio importante del suo intervento. Deportata ad Auschwitz, da dove era tornata con il numero 78561 marchiato su un braccio, la prima presidentessa al femminile dell’assemblea di Strasburgo disse che l’Unione dell’Europa l’aveva «riconciliata» con il ventesimo secolo. Oggi, invece, è necessario riconciliare il ventunesimo secolo con un’Europa che è cambiata troppo poco. Senza abbandonare i valori che l’hanno fatta nascere.

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