Non esiste una attenta valutazione costi-benefici: non sappiamo cioè quanta parte della ripresa sia dovuta ai singoli bonus e quanta invece no. Non sappiamo se convengono alla collettività, oltre che ai percettori
Ora che abbiamo anche il bonus per lo psicologo, forse possiamo fermarci un attimo e chiederci fin dove vogliamo arrivare. Quanto ci costa, e quanto invece produce, Bonuslandia; il fantasmagorico mondo in cui l’austera legge di Milton Friedman, secondo cui non esistono pasti gratis, è stata spazzata via da un fiume di denaro pubblico, travolta da una valanga di «gratuitamente», come nei comizi di Giuseppe Conte. Perché in realtà alla fine, come abbiamo visto con i bonus edilizi, il conto arriva, e qualcuno che paga c’è: sempre lui, il contribuente. Bonus è un neologismo, in politica. Fino a qualche anno fa si diceva «incentivo», o «sussidio»: sullo sfondo restava così visibile l’obiettivo, la finalità, che era la crescita economica o la lotta alle disuguaglianze. Bonus ha invece un’origine lessicale diversa: per il dizionario è la «gratifica», l’«abbuono», quello che il datore di lavoro concedeva a fine anno quando le cose andavano bene. E per quanto l’irruzione del termine nel dibattito pubblico nostrano sia stata da molti messa in relazione all’utopia «new age» di un’era a Cinquestelle, nella quale si consuma anche ciò che non si produce, in realtà la paternità spetta a Matteo Renzi. Fu lui a introdurre, nel maggio del 2014, giusto in tempo per una cruciale elezione europea, l’ormai proverbiale «bonus 80 euro» messo in busta paga, qualche volta addirittura con la dicitura «Bonus Renzi» (successe al Comune di Prato). Al punto che il bonus degli 80 euro ai fini statistici risultò non come un taglio di tasse, ma come un aumento di spesa pubblica. Nomen omen. Quel bonus conteneva in sé i difetti di tutti quelli che gli avrebbero fatto seguito: costava molto, tagliava fuori i poveri e i pensionati, e rendeva più in termini elettorali che economici.
Da allora, però, Bonuslandia ne ha fatta di strada. Leggiamo alla rinfusa dagli elenchi degli anni della pandemia: bonus abbattimento barriere architettoniche, superbonus 110%, eco bonus, sisma bonus, bonus mobili ed elettrodomestici, bonus verde, bonus idrico, bonus acqua potabile, bonus facciate, ristrutturazione, restauro prima casa under 36, affitti giovani under 31; bonus zanzariere, bonus rubinetti; bonus bebè, bonus nido, bonus nascita, bonus mamma domani (questi ultimi poi opportunamente sostituiti dall’assegno familiare unico); bonus centri estivi, bonus animali domestici, bonus vacanze, bonus terme, bonus pagamenti elettronici, bonus bici, monopattini e auto, bonus rottamazione tv, e mi fermo perché lo spazio è limitato, a differenza dei bonus.
Naturalmente in tutto l’Occidente gli Stati hanno speso, e tanto, per sostenere redditi ed economia durante la pandemia. Ma la domanda se quello dei bonus sia il metodo migliore è diventata più che lecita. Per molte ragioni. La prima delle quali è che non esiste una attenta valutazione costi-benefici: non sappiamo cioè quanta parte della ripresa sia dovuta ai singoli bonus e quanta invece no. Dunque non sappiamo se convengono alla collettività, oltre che ai percettori. Con il loro proliferare, anzi, i bonus sono apparsi sempre più come strumenti di distribuzione del denaro pubblico, non di investimento o di formazione di forza lavoro. Provvedimenti spesso disegnati ad hoc dai partiti per le fette di elettorato che sentono più vicine (interessante il fatto che sia stata la sinistra a spingere di più per il bonus-psicologo). E misure quasi sempre regressive, nel senso che tolgono soldi ai poveri (il bilancio dello Stato) per darli in molti casi ai ricchi, o a coloro che possono rivolgersi a un avvocato a un commercialista, o hanno abbastanza dimestichezza con il digitale per partecipare a un click day. In quella che Dario Di Vico, citando un rapporto Censis, ha descritto come la «Bonus Economy», un’estrema frammentazione della politica di bilancio si sostituisce alla spesa per un welfare efficiente e universale, nella scuola, nella sanità, nella casa, che aiuti tutti quelli che ne hanno bisogno. Al posto dei diritti di tutti, la parcellizzazione delle misure, in modo che siano ben riconoscibili a ogni settore di possibile consenso. Per questa sua discrezionalità, il bonus porta con sé le frodi come l’autunno le piogge: fatta la legge, trovato l’inganno.
Che altro si potrebbe fare, invece? Il ministro Giorgetti, parlando con il Corriere, ha invocato l’uso di queste ingenti risorse per avviare piuttosto una seria politica industriale. Ma in realtà anche il bonus è una forma di politica industriale: rivolta a sostenere i settori tradizionali dell’economia, ciò che già c’è, come l’edilizia o il turismo; non certo a incentivare quelli più innovativi, che danno occupazione di maggior qualità e più alto reddito (ultimo tentativo in tal senso, gli incentivi per l’industria 4.0). Oppure, tutto questo denaro pubblico potrebbe semplicemente essere lasciato nelle tasche dei cittadini, con un abbattimento delle aliquote fiscali: un grande, equo e solidale bonus fiscale per tutti.
Uscendo dalla pandemia, che tutto giustificava, forse dovremmo anche uscire dalla stagione dei bonus, progressivamente e razionalmente. Tanto più che l’epoca del deficit no-limits, del debito facile e dei tassi a zero, sta volgendo al termine. Ben presto i pasti torneranno a non essere gratis, e per i partiti che hanno fatto del bonus una cattiva pedagogia politica sarà davvero difficile spiegarlo ai loro elettori.