Fonte: Corriere della Sera
Il tentativo di trasformare il sistema elettorale in maggioritario puro sapeva di forzatura: fa capire questo l’espressione «eccessivamente manipolativo» usata ieri dalla Consulta. E si è rivelato un boomerang
Si possono azzardare due considerazioni, dopo la bocciatura del referendum sulla legge elettorale da parte della Corte costituzionale. La prima è che il tentativo di trasformare il sistema in maggioritario puro sapeva di forzatura: l’espressione «eccessivamente manipolativo», usata ieri dalla Consulta per respingere come inammissibile la richiesta, fa capire questo. La seconda è che l’offensiva contro il proporzionale condotta da otto Consigli regionali guidati dal centrodestra, e voluta soprattutto dalla Lega di Matteo Salvini, si è rivelata un boomerang.
Da ieri, la prospettiva che alle prossime elezioni si voti fotografando un sistema frantumato, seppure con una qualche soglia di sbarramento, diventa la più verosimile. Non significa che ci sarà maggiore stabilità, anzi: semmai è il contrario. Si profila un ruolo crescente del Parlamento rispetto al governo, perché le maggioranze probabilmente si potranno formare solo in quella sede; e non prima ma dopo il voto. Il rischio che questo accentui un’inclinazione al trasformismo, già vistosa nelle Camere elette alle Politiche del 2018, non va sottovalutato.
Quanto è accaduto nell’agosto scorso, col passaggio rocambolesco da un esecutivo tra M5S e Lega a uno tra grillini e Pd, mantenendo lo stesso premier, Giuseppe Conte, suona come precedente. Ma non si può scaricare sulla Corte costituzionale la responsabilità di un cambio di stagione provocato sia dalla formulazione del quesito presentato da Veneto, Piemonte, Lombardia, Friuli Venezia Giulia, Sardegna, Abruzzo, Basilicata e Liguria; sia da un progressivo logoramento delle logiche maggioritarie, che resistono solo a livello locale.
Anche perché il Parlamento ha pieni poteri legislativi. E dunque, in teoria potrebbe trovare un accordo per introdurre un sistema capace di dare stabilità alle maggioranze: senza costringere i partiti più forti a trattare con quanti, grazie al proporzionale, possono far valere posizioni di rendita legate all’esigenza di trovare fino all’ultimo voto per permettere la nascita di un governo. In qualche misura, le tensioni di oggi nei rapporti tra M5S, Pd e i «corsari» di Iv sono un assaggio di quello che potrebbe diventare un fenomeno strutturale.
Ma è difficile che il Parlamento riesca a scongiurare queste dinamiche, e non per la sentenza emessa ieri dalla Consulta. Salvini la definisce «una vergogna», e con lui gran parte del centrodestra, che parla di «ritorno alla Prima Repubblica». Eppure suonano tutte critiche d’ufficio, un po’ stucchevoli. Gran parte delle forze politiche hanno contribuito in questi anni a indebolire di fatto la logica del maggioritario, mostrandosi inclini a prendere atto che appartiene a una fase politica finita. Eclatante è la parabola di Silvio Berlusconi e di Romano Prodi, che del maggioritario sono stati l’incarnazione dal 1994 al 2011.
Il bipolarismo che hanno rappresentato appare quasi un reperto archeologico. In pochi anni è stato sostituito prima da un sistema tripolare, nato col l’affermazione del Movimento Cinque Stelle; e adesso da partiti accerchiati e insidiati da una sorta di magma in continuo assestamento, tra mini-scissioni e protagonismi post-ideologici, che teme una stabilizzazione dominata dal blocco salviniano e vede nel proporzionale una garanzia di sopravvivenza. Chiedersi se funzionerà, per quanto a lungo e con quale esito per la tenuta del sistema, è una domanda alla quale al momento nessuno vuole e, forse, è in grado di rispondere.