Fonte: Corriere della Sera
di Antonio Polito
Trent’anni dopo le manifestazioni a Berlino e a Pechino, negli Usa molti ragazzi pensano che non sia molto importante vivere in una democrazia
I ragazzi di Hong Kong ci ricordano quanto vale la libertà; trent’anni dopo quelli di Berlino, che la conquistarono prendendo a picconate il Muro, e trent’anni dopo quelli di Pechino, schiacciati invece sotto i cingoli dei carri armati a Piazza Tienanmen. Chissà se ce la faranno. Ieri sembrava di sì. La governatrice della città, chief executive del regime, ha dichiarato «morta» la controversa legge sulle estradizioni che era diventata il simbolo della rivolta anti-cinese. Ma Hong Kong non è più un modello di successo neanche per la Cina. Grattacieli e sviluppo sono ormai più alti a Shangai e Shenzhen; la vecchia ex colonia britannica sembra essere rimasta un’oasi di nostalgia per la «rule of law» nel deserto di diritti del capitalismo comunista. Del resto la libertà non va più molto di moda neanche tra i giovani dell’Occidente. Meno di un terzo dei millennial americani oggi pensa che sia molto importante vivere in una democrazia; una persona su sei negli Stati Uniti è convinta che un governo militare sia un buon sistema per guidare lo Stato. Negli ultimi quindici anni i diritti individuali si sono ristretti in 71 paesi del mondo. Dalla caduta del Muro di Berlino a oggi la Storia invece di finire, come suggerì Francis Fukuyama, è andata all’indietro, come aveva previsto Samuel Huntington: i regimi non democratici rappresentavano solo il 12% del Pil mondiale nel 1990, oggi sono il 33%, tra breve supereranno il 50%, secondo Foreign Affairs. I muri, che erano 16 nel 1989, sono oggi 70, dieci dei quali nell’Unione Europea. Solo questa involuzione può spiegare come è possibile che l’ultimo erede dell’Unione Sovietica, l’ex ufficiale del Kgb Vladimir Putin, possa oggi dire impunemente che il liberalismo è obsoleto e superato. E chi potrebbe contraddirlo, del resto: Donald Trump?
Ci sono due ottime ragioni che consigliano di temere davvero per le sorti della libertà, se non la nostra almeno quella dei nostri figli. La prima è che il legame tra democrazia e liberalismo non è scontato. Ci sono molti paesi nel mondo nei quali si vota ma non c’è libertà (Russia, Iran, Turchia, solo per citarne alcuni). E i liberali, più antichi della democrazia, hanno una tendenza innata all’elitarismo che in certe epoche – questa è una – può renderli molto antipatici alle masse, sempre attratte dall’uomo solo al comando.
La seconda ragione per cui dobbiamo temere il ritorno della tirannia, seppure in forme nuove, sta nella tecnologia del nostro tempo. L’ambiente tecnologico ha sempre avuto una grande influenza sui sistemi sociali e politici. L’aratro di legno produsse un’agricoltura di sussistenza e l’economia feudale; bussola e sestante, banconote e lettere di cambio, aprirono la strada alla borghesia e ai Comuni; l’invenzione della stampa di Gutenberg rese celebre Lutero e vincente il protestantesimo. Allo stesso modo la società industriale del dopoguerra e il libero commercio erano perfetti per i sistemi politici a decisione diffusa, più efficienti di quelli che centralizzavano le informazioni per «pianificare» l’economia. In fin dei conti è per questo che l’America ha vinto la guerra fredda: perché l’Urss non ce l’ha fatta a reggere la sfida della complessità.
L’avvento dei big data e quello imminente dell’Intelligenza Artificiale modificano radicalmente lo scenario. Maggiore è la concentrazione di informazioni e meglio funziona la nuova tecnologia. Va dunque a nozze con i regimi autoritari e li rende efficienti, perché ha fame di dati e allergia per la privacy. Un tempo si pensava che un sistema a comando centralizzato non potesse tenere il passo dell’innovazione: i russi partirono prima nella corsa allo spazio, però sulla Luna ci arrivarono gli americani. Ma oggi il successo della Cina nell’economia digitale sta a dimostrare che non è più così. Anzi, le nuove tecnologie possono aiutare i regimi a rafforzare il controllo all’interno e a elevare l’aggressività all’esterno, con i bombardamenti di «bots» o con lo spionaggio hi tech.
Le società europee si occupano di altro. Nel suo romanzo «Sottomissione» lo scrittore francese Houellebecq previde quattro anni fa che si sarebbero stufate della libertà, e l’avrebbero ceduta agli islamici. In realtà oggi sembrano più disposte a scambiarla con chiunque fermi gli islamici sul bagnasciuga. Trent’anni fa ci siamo rilassati, assistendo allo spettacolo dei popoli soggetti al tallone sovietico che si ribellavano in nome della libertà. Adesso da quella parte dell’Europa, dall’Ungheria come dalla Polonia, soffia il vento opposto. In Italia, Francia e Gran Bretagna sono arrivati primi alle elezioni europee partiti se non illiberali, certamente non liberali. I liberali da noi hanno preso neanche un seggio. I partiti più vicini ai liberali, pur sommati, non fanno un terzo dell’elettorato. La libertà ci sembra conquistata per sempre, un dato di fatto, una commodity. Per questo non ce ne occupiamo più. Forse dovremmo ripensarci.