Gli interventi fiscali del Governo prevedono la conferma del taglio del cuneo fiscale attualmente in vigore che scade a fine anno (costo 10 miliardi). Questo intervento non determinerà nessun vantaggio netto per i contribuenti interessati, rispetto a quello acquisito nella seconda metà dell’anno, ma eviterà una perdita
Gli interventi fiscali del Governo prevedono la conferma del taglio del cuneo fiscale attualmente in vigore che scade a fine anno (costo 10 miliardi). Questo intervento non determinerà nessun vantaggio netto per i contribuenti interessati, rispetto a quello acquisito nella seconda metà dell’anno, ma eviterà una perdita. Si tratta di un intervento limitato, condivisibile, ma finanziato in deficit, e che elude il problema molto rilevante che riguarda le modalità con cui sarà possibile finanziare nei prossimi anni il sistema di welfare. Tradizionalmente il welfare è stato finanziato ricorrendo alle imposte sul reddito e ai contributi sociali. Ma in una situazione in cui nei Paesi occidentali, negli ultimi decenni, la quota dei redditi di lavoro sul totale del valore aggiunto si è progressivamente ridotta di 10-20 punti, sarebbe necessario pensare ad una diversa modalità di finanziamento che coinvolgesse l’intero reddito prodotto, e non solo parte di esso.
L’altro intervento riguarda l’Irpef. Il Governo ha deciso di ridurre da quattro a tre gli scaglioni (e le aliquote) eliminando il secondo scaglione (da 15mila a 28mila euro), estendendo così l’aliquota iniziale del 23% fino a 28mila euro. Ciò potrebbe essere interpretato come l’inizio di una progressiva e graduale estensione della flat tax con aliquota del 23% (e non del 15% ora in vigore per i forfettari) verso i redditi più elevati, come da programma elettorale. Peraltro l’ulteriore passaggio a due aliquote si presenta molto più problematico in termini di perdita di gettito.
Ma, come è ovvio, se si riduce un’aliquota “a valle” in un’imposta progressiva, i benefici si estendono anche ai contribuenti con redditi più elevati. In questo caso si tratterebbe di un vantaggio di 260 euro annui (21,67 mensili) per tutti i percettori di più di 28mila euro. Ma il Governo non si è sentito di affrontare le inevitabili polemiche che sarebbero seguite ad una tale decisione, e quindi ha scelto di sterilizzare il potenziale beneficio per via indiretta intervenendo sulle spese fiscali detraibili al 19%, riducendo l’ammontare detraibile di 260 euro per tutti i contribuenti con imponibili superiori a 50mila euro. La riduzione Irpef viene così di fatto limitata ai percettori di redditi compresi tra 15mila e 50mila euro. Il messaggio è anche qui chiaro: le aliquote verranno ridotte, ma i “ricchi” dovranno rinunciare ad alcuni benefici derivanti dall’attuale sistema di welfare. Per quanto l’intervento sia per il momento limitato, esso sembra confermare le preoccupazioni di chi afferma che una imposta sul reddito con aliquota unica è incompatibile con un sistema di welfare universale.
L’intervento sulle spese fiscali merita comunque qualche riflessione: trattandosi di una riduzione generalizzata per chi si colloca sopra i 50mila euro di reddito, avrà effetti retroattivi per quanto riguarda spese ed impegni assunti in passato o comunque ricorrenti (assicurazioni sulla vita, mutui ipotecari, spese scolastiche) il che non è corretto ed andrebbe evitato. Era anche annunziata l’esclusione delle spese mediche, che costituiscono la parte prevalente delle detrazioni al 19%. Si trattava di scegliere tra rinunziare a circa 500 milioni di minore deficit o infastidire quasi due milioni di contribuenti. Alla fine si è scelto di confermare l’esclusione delle spese sanitarie. Peraltro non tutti i “ricchi” perderanno i 260 euro. Guardando alle dichiarazioni del 2022 risulta che il 14% non ha detrazioni; probabilmente si tratta di persone che o hanno una salute ottima o hanno avuto spese sanitarie sotto la franchigia di 129,11 euro. Si può stimare che, su un totale di 2,5 milioni di contribuenti con redditi oltre i 50mila, tra quelli senza detrazioni (350mila) e quelli con solo quelle sanitarie (600mila), sono quasi un milione coloro che conserveranno i 260 euro. Certamente gli altri si chiederanno perché loro solo vengono considerati “ricchi”.
In realtà sarebbe stato sufficiente aumentare direttamente l’aliquota del 43%, di qualche decimale di punto portandola al 43,2-43,3% per recuperare in modo indolore il vantaggio per i contribuenti con redditi più elevati. Ma il Governo si sarebbe esposto alla polemica per il fatto che invece di ridurre le aliquote le aumentava.
Un’ultima osservazione: questo intervento penalizza i contribuenti con redditi superiori a 50mila euro. Data l’esclusione dall’Irpef dei redditi dei ricchi “veri”, si tratta di ceto medio relativamente benestante, con redditi di lavoro dipendente o pensione; gli stessi contribuenti ai quale vengono sterilizzati gli aumenti delle pensioni, e sempre più spesso oggetto di interventi specifici, non solo a livello centrale, ma anche regionale o comunale. Una categoria di fatto priva di tutela politica.
Un altro intervento di carattere tributario riguarda l’abolizione dell’ACE. Il risparmio sarebbe di oltre 4 miliardi. Si penalizza così l’accumulazione del capitale e soprattutto le imprese più strutturate e gli investimenti dall’estero. Non sembra una buona scelta.