10 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Paolo Lepri

L’Unione può permettersi di provare a confrontarsi ancora con il futuro. Intanto le forze anti-sistema che contribuiscono a creare il rumore di quelle «guerre civili» di cui ha parlato il presidente francese non sono invincibili


Nella notte europea, avverte Emmanuel Macron, non dobbiamo diventare «una generazione di sonnambuli». L’appello lanciato dal presidente francese è rivolto agli altri leader di un continente attraversato da «guerre civili» ma che non può essere «consegnato all’impotenza». Molti di loro, però, sonnambuli lo sono già: si sono sempre addormentati facendo lo stesso sogno, non sentendo i rumori di quelle guerre, per poi camminare senza un orientamento preciso nel buio e tornare finalmente a dormire tranquilli. Si tratta di convincerli che le loro finestre rischiano di essere infrante dai sassi lanciati dalla strada. Si potrebbero così svegliare in un mondo improvvisamente sconosciuto.
Come evitare tutto questo? Esistono ancora le ricette della politica? Certamente. Non è un caso che Macron abbia parlato ieri di «una nuova sovranità europea» in grado di proteggere i cittadini e di rispondere alle loro preoccupazioni. Ma le priorità sono più semplici delle formule che abbiamo ascoltato in questi anni. Questo all’Eliseo non lo dicono,ma bisogna smantellare gli sprechi dell’establishment comunitario con strappi impietosi. Si pensi per esempio a tutto il denaro impiegato per fare funzionare, tra Strasburgo, Bruxelles e Lussemburgo, quello stesso Parlamento dove è intervenuto ieri il fondatore di «En Marche!».
Ma soprattutto è indispensabile riavvicinare finalmente l’Europa ai suoi abitanti: lavoro, sicurezza, qualità della vita, difesa della privacy. Solo così si può insistere sugli ideali che hanno cambiato la nostra esistenza dimostrandone, nei fatti, l’irreversibilità. Non sono affatto ingialliti come altre foto degli album che abbiamo in casa.
Smettere di sognare, insomma, ma preparare un libro «minore» dei sogni. Non è un paradosso. L’Europa che è stata capace di realizzare costruzioni impensabili può permettersi di provare a confrontarsi ancora con il futuro. Intanto le forze anti-sistema che contribuiscono a creare il rumore di quelle «guerre civili» di cui ha parlato il presidente francese non sono un fenomeno invincibile, e, per la maggior parte, sono minoritarie in un immaginario collettivo sgravato dal peso opprimente della propaganda. Perfino in Ungheria e in Polonia l’appannamento dei valori democratici non è inevitabile, soprattutto tra i giovani, se contrastato dalla serietà di un progetto in grado di dimostrare che i confini non possono più tornare quelli di prima. E in altri Paesi, come l’Italia, il realismo sembra ormai prevalere sui proclami.
Se tutto questo è vero, è il momento di richiamarsi ad una responsabilità generale che accantoni i veti nazionali nelle opzioni di percorso. Quanto sta accadendo in Germania, per esempio, non è positivo. Le spinte innovative contenute nel programma della grande coalizione sono state accantonate, la cancelliera Angela Merkel è indebolita dalle pressioni del suo partito (e dal silenzio eloquente del successore socialdemocratico di Wolfgang Schäuble, l’ex sindaco di Amburgo Olaf Scholz) non solo contro la nascita di Fondo monetario europeo, ma anche contro la creazione di un ministro delle Finanze dell’Eurozona. La presa di posizione degli otto Paesi del fronte guidato dall’Olanda ha poi impresso al dibattito un confronto vecchio stile, dominato da uno spirito rigorista che rischia di portarci indietro.
Macron parla di rafforzare «l’autorità della democrazia» contro la soluzione delle «democrazie autoritarie». Si riferisce soprattutto all’Ungheria di Viktor Orbán: un regime illiberale in costruzione, che vede il «pericolo» arrivare «dai politici di Bruxelles, Berlino e Parigi» e nel quale gli strumenti di controllo e di persuasione in mano al potere hanno raggiunto vette di intensità inaudite. Una cosa è il «rispetto» delle scelte degli elettori, che deve sempre esistere, un’altra la riaffermazione di principi comuni sui quali si basa quella stessa Europa dalla quale gli ungheresi hanno ottenuto indiscutibili benefici. Non è questione di «dividere gli europei in buoni e cattivi», come pensa il capogruppo del Ppe all’Europarlamento Manfred Weber. In qualsiasi casa comune le regole devono essere condivise.
La difesa che le grandi famiglie politiche europee hanno fatto dei loro compagni di strada (i popolari hanno Orbán nel loro gruppo, mentre i socialisti europei hanno sostenuto cause sbagliate, magari meno gravi, come quella del premier romeno Victor Ponta) nell’evidente tentativo di serrare i ranghi o mantenere il primato è stata sempre un errore. Sarà anche per questo che una spallata di Macron agli attuali rapporti di forza può essere molto importante, comunque la si pensi. Ma questo scossone sarebbe inutile se non si accompagnasse a un modo di ragionare diverso: una progressiva «denazionalizzazione» dei partiti europei. Che diano il buon esempio ai governi. Sono loro, a volte, i sonnambuli più difficili da svegliare.

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