Fonte: Corriere della Sera
di Franco Venturini
Ora è più che mai indispensabile una vera conferenza di pace, con la partecipazione anche della Russia e della Cina, che finge disinteresse
Le milizie che difendono Tripoli hanno sin qui ridicolizzato i proclami guerreschi del generale cirenaico Khalifa Haftar. E dalla Turchia, si dice, stanno arrivando nella capitale libica nuove forniture di armi. Partendo da simili premesse Fayez al Sarraj avrebbe dovuto esibire a Roma il più ampio dei sorrisi, prima di proseguire con altrettanta baldanza per le altre capitali europee. Invece il capo del governo libico internazionalmente riconosciuto aveva in valigia un Sos politico. A tutti, e per primo a Giuseppe Conte, Sarraj ha rivolto un appello disperato, quasi da ultima spiaggia: non privatemi dell’appoggio occidentale, non siate comprensivi verso chi sta usando la forza contro donne e bambini, non siate equidistanti tra chi aggredisce e chi si difende. Sarraj ha ragione a sentirsi minacciato, perché in Libia i giochi sono cambiati e la guerra civile che tanto ci riguarda è diventata una piccola guerra mondiale. Circoscritta nel territorio, combattuta per procura da milizie tribali, ma comunque mondiale e straordinariamente pericolosa per chi, come noi, le sta davanti. La svolta ha avuto luogo il 15 aprile scorso, quando Donald Trump ha preso l’iniziativa di telefonare a Khalifa Haftar, già impegnato a bombardare Tripoli, congratulandosi per le sue operazioni anti-terrorismo e riscontrando, secondo un comunicato della Casa Bianca, «una visione condivisa sulla transizione della Libia verso un sistema politico stabile e democratico». Quel gesto non ha soltanto smontato la «cabina di regia» che sulla Libia l’Italia filo-Serraj si era illusa di condividere con l’America. Non ha soltanto distrutto la mediazione che l’Onu conduceva tra le parti, e che da quattro anni era l’ombrello formale della incauta linea italiana. Ha anche confermato, quella telefonata, che la guerra civile libica aveva ormai travolto i suoi confini, che gli schieramenti contrapposti in Libia avevano le radici in conflitti assai più ampi e capaci di coinvolgere gli interessi delle grandi potenze.
I punti di riferimento che aiutano a capire l’offensiva militare di Haftar e le paure politiche di Sarraj sono due e hanno entrambi una portata che attraversa tutto il mondo islamico: chi è favorevole e chi è contrario ai Fratelli musulmani? E ancora: chi appoggia e chi osteggia l’Iran sciita? Trump, che per appoggiare Haftar ha contraddetto il suo Segretario di Stato Pompeo, ha ricevuto in aprile la visita di Abdel Fattah al-Sisi. In quella occasione il presidente egiziano deve essere stato molto convincente, perché i suoi nemici giurati, i Fratelli musulmani, sono diventati di colpo i nemici dell’America. A tal punto che ora la Casa Bianca annuncia di volerli iscrivere nell’elenco dei gruppi terroristici internazionali. E non basta, perché quando la Gran Bretagna ha presentato al Consiglio di Sicurezza dell’Onu una mozione che reclamava la cessazione delle ostilità a Tripoli e la protezione della popolazione civile, gli Stati Uniti hanno votato contro assieme alla Russia.
Del resto l’Egitto di al-Sisi appoggia da tempo Haftar che combatte gli islamisti nella confinante Cirenaica, e filo-Haftar sono da anni anche l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti che hanno finanziato l’operazione Tripoli. Ma la discesa in campo degli Stati Uniti e la carta abilmente giocata da al-Sisi contro i Fratelli musulmani cambia la natura dell’alleanza, identifica con maggiore precisione una guerra che è mediorientale anche se viene combattuta in Libia. Tanto più che l’alleanza benedetta da Trump supera anche il secondo test, forse ancora più importante del primo: non è forse vero che Arabia Saudita, Emirati e Stati Uniti sono le punte di lancia (con Israele, s’intende) dell’ostilità e delle sanzioni contro l’Iran sciita? Anche questa alleanza, se funziona nel Golfo, può funzionare in Libia.
Dall’altra parte, a sostegno di Sarraj, si trovano soltanto conferme degli schemi già descritti. La Turchia non è nemica dei Fratelli musulmani, e pur non amando l’Iran collabora con Teheran (e con la Russia) nello scacchiere siriano. E il Qatar, che pure appoggia il governo di Tripoli, non è stato forse sottoposto a sanzioni nel 2017 da parte di Arabia Saudita, Egitto, Emirati e Bahrain per aver troppo dialogato con il «terrorismo iraniano»? Tutto torna, deve essersi detto Trump prima di chiamare Haftar il 15 aprile. E così gli europei, a cominciare dagli italiani e dai francesi, scoprono quanto poco hanno contato e quanto poco contano nella vicenda libica.
Ma l’Italia, più della Francia, non può permetterselo. Per i flussi migratori di oggi e di domani, per i nostri rifornimenti energetici, per la nostra sicurezza. È uno scandalo che la parola Libia non sia mai stata pronunciata nelle forsennate campagne elettorali della Lega e dei 5 Stelle, che si presume conoscano gli interessi fondamentali dell’Italia. Ed è anche vero che il premier Conte ha reagito male alla fraterna conversazione tra Haftar e Trump, suggerendo una equidistanza tra i contendenti libici che in realtà non abbiamo mai avuto, legati come siamo sempre stati al carro dell’Onu e di Serraj. Ma Conte, e questo va detto a suo merito, di Libia si occupa non soltanto quando è in avvicinamento un barcone di disperati. L’impresa di far contare l’Italia è disperata, al punto in cui siamo e con i nostri precedenti. Ma chi può escludere che lo stallo militare induca tra non molto Haftar a salvare la faccia con l’aiuto di una mediazione efficace? E cosa farebbero a quel punto i suoi molteplici e autorevoli protettori? Serve più che mai una vera conferenza di pace, diversa da quella di Palermo e da quelle organizzate in Francia. Con la presenza degli Usa, della Russia e della Cina che finge disinteresse. L’alternativa sarà, sempre di più, la guerra mondiale di Libia.