20 Settembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Giangiacomo Schiavi

E’ una sfida all’ignoto per una città che non si è mai fermata, che anche nei momenti più duri ha trovato nel civismo e nello spirito solidale la forza di reagire alle emergenze


Milano che chiude e annuncia il coprifuoco è l’immagine rovesciata di se stessa, la città che appartiene alla gente si ferma nell’anticamera della paura, un po’ smarrita, quasi rassegnata, accettando una prova che mette a rischio la tenuta di un sistema. Il Coronavirus è un campo minato da attraversare con prudenza e con ogni precauzione, ma i divieti alzano barriere mai viste e sperimentate in tempo di pace. Scuole, teatri, cinema, musei, cortei, presentazioni e feste di via, tutto è bloccato dall’ordinanza regionale che deve tutelare la salute pubblica ed evitare i rischi di contagio. Funzionano metropolitana e trasporti pubblici, e sembra una contraddizione che lascia uno spiraglio di normalità, la sensazione che non siamo alla resa. Ma c’è un tam tam preoccupato che passa sui social, da WhattsApp a Facebook, tutti si chiedono quanto durerà il blocco, se questa era davvero l’unica misura da prendere, come si concilierà l’invito a restare a casa con gli impegni di lavoro. E alla fine riuscirà Milano a reggere l’urto dell’ondata di panico senza andare fuori giri?
E’ una sfida all’ignoto per una città che non si è mai fermata, che anche nei momenti più duri ha trovato nel civismo e nello spirito solidale la forza di reagire alle emergenze. Bisogna andare indietro nella storia, alle grandi epidemie dei secoli bui e alla peste manzoniana per evocare momenti di isolamento forzato con la città in ginocchio, periodi in cui le malattie erano endemiche e la sanità era quella in cui razzolavano sciamani e barbitonsori. Oggi Milano è citta di primati, riferimento europeo e mondiale con un Pil pari al doppio di quello italiano, duecentomila imprese attive, investimenti per 21 miliardi nel settore immobiliare, moda, design e turismo che trainano quel poco di ripresa che esiste nel Paese. All’euforia, a volte un po’ strabica e autocelebrativa del modello vincente, il Coronavirus ha dato un colpo. Dai giorni di Expo la città era abituata a correre, a farsi trovare preparata, efficiente, affidabile. Da oggi deve dimostrare di esserlo con un’incognita da affrontare. Le strade si svuotano. Negozi e bar temono la crisi. La moda sfila a porte chiuse. Gli eventi in Fiera sono sospesi. Il salone del Mobile è in forse. Anche la Scala abbassa le luci: un brutto segnale, come dopo le bombe della seconda guerra mondiale.
E’ chiaro a tutti, amministratori e cittadini, che bisogna reagire, l’inerzia non può diventare paralisi. Ed è altrettanto evidente che certe misure precauzionali non fermeranno il contagio nei prossimi giorni: purtroppo ci saranno altri casi, altri pazienti ricoverati, perché non esistono muri per fermare i virus. Milano resta l’epicentro di un sistema che non si esaurisce nella cinta daziaria, è il motore di un Nord al quale fare riferimento, ma anche il terminale di una grande area. Il Coronavirus non ne ha ampliato i confini, ha confermato quelli reali: da Cremona a Piacenza, da Varese a Pavia, da Bergamo a Novara, siamo tutti nella stessa orbita. Per questo c’è chi sostiene che il coprifuoco rischia di allargare a macchia d’olio l’allarme. Si poteva essere più elastici? Davanti alla tutela della salute le precauzioni non sono mai troppe, ha detto il presidente della Regione Fontana. Aveva la faccia tirata, di chi da tre notti non dorme. Anche il sindaco Sala invita alla calma, ma è preoccupato. Milano deve continuare a vivere, con coraggio, calma e buon senso, cercando di inventarsi un nuovo equilibrio, fidandosi dell’efficienza delle sue strutture sanitarie e dell’eroismo di medici e operatori sanitari chiamati alla prova più dura.
Ci vorrà un grande sforzo di responsabilità individuale e collettiva per non farsi trascinare nel gorgo dell’irrazionalità e delle paure che ormai ci vengono addosso ad ogni bollettino medico. In queste ore le farmacie hanno esaurito le mascherine, sono finite le scorte di amuchina, nei supermercati c’è stata la corsa all’accaparramento di acqua e generi alimentari. E i cittadini bombardano di telefonate i centralini della Regione. «Guardiamo avanti senza allarmismi e senza rassegnazione, ma con il senso del limite», ha detto l’arcivescovo Delpini nell’omelia, in cui è mancata la stretta di mano in segno di pace.
Anche il Duomo ha dovuto piegarsi all’ordinanza: portoni chiusi alle visite e alle funzioni. Poco lontano, nel Dopoguerra, Alberto Savinio aveva trovato questa scritta, con la quale aveva chiuso il capitolo di Ascolta il tuo cuore, citta. La scritta diceva: «Impresa Pulizia Speranza». Da oggi è ancora attuale.

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