Fonte: Corriere della Sera
di Sabino Cassese
Colpisce che proprio le forze politiche che invocavano trasparenza non abbiano ora stabilito criteri e procedure per l’assegnazione degli incarichi
Nominati i capi di gabinetto e degli uffici legislativi, designati i vertici della Cassa depositi e prestiti, tocca ora alla Rai, a Ferrovie dello Stato e all’Istituto nazionale di statistica, nonché ai posti di capi di dipartimento della presidenza del Consiglio dei ministri e dei ministeri. Più tardi verrà il turno di alcune autorità amministrative indipendenti, di Poste, di Eni, di Enel, nonché dei livelli inferiori (ad esempio, dei direttori di rete Rai) e dei dirigenti generali statali che vanno riconfermati alla scadenza del loro incarico. Ma l’appetito vien mangiando, perché il ministro dell’Interno ha dichiarato al Corriere della sera del 23 luglio: «educazione vorrebbe che i vertici di ogni autorità governativa si mettano a disposizione del nuovo governo». Si chiamava una volta lottizzazione, occupazione dello Stato, governo spartitorio. Anche il governo autodefinitosi del «cambiamento» ha fatto presto a impadronirsi degli usi e costumi antichi, che precarizzano e spartiscono le cariche più importanti dello Stato, trasformando l’Italia in una Repubblica di nominati.
Chi avesse a cuore le sorti dello Stato dovrebbe riflettere su almeno quattro punti. Primo: non si può ridurre il numero dei nominati? Oggi vi sono gabinetti, alta burocrazia, vertici di enti pubblici e di alcune autorità indipendenti, amministratori di società con partecipazione pubblica. Insomma, i posti di rilievo dello Stato e delle frange dello Stato. Ai posti nella disponibilità del governo nazionale bisogna aggiungere quelli a disposizione dei vertici politici di Regioni e Comuni, e anche di altri organismi collaterali. Si tratta di un vero esercito di generali, che alimenta clientelismo e aspirazioni (in una grande città meridionale si diceva una volta che i figli della piccola borghesia dovevano far concorsi per la pubblica amministrazione, quelli della media e alta borghesia potevano aspirare a una nomina in una banca o in una società a partecipazione statale). I motivi per ridurre i posti sui quali si può esercitare ad libitum una scelta della politica sono numerosi. La precarizzazione di quei posti mette molti organismi nelle mani di persone transeunti, considerata la velocità con la quale cambiano i governi in Italia, con grave danno della continuità dell’azione pubblica. Poi c’è l’«indotto»: il nominato vorrà o dovrà sdebitarsi, nominare altri, indicati dal suo «dante causa», in posti subordinati, oppure eseguire i «patti» fatti col nominante. Insomma, c’è una politicità che «discende per li rami». Infine, questa generale precarietà crea dipendenza, fidelizza anche quando non viene esercitato un potere di revoca o di non conferma. Non bisognerebbe dimenticare che le banche pubbliche e specialmente il sistema delle partecipazioni statali affondarono sotto il peso del meccanismo delle nomine clientelari.
Il secondo punto sul quale riflettere riguarda la stessa idoneità dei governi, da soli, alla scelta. L’esempio della Cassa depositi e prestiti, dove le fondazioni bancarie hanno una quota e particolari diritti di governance che consentono loro una partecipazione che permette di fare alcune nomine, o quello della Corte costituzionale, nella quale confluiscono persone scelte da autorità diverse, danno maggiori garanzie di scelte più ponderate o almeno equilibrate. Terzo: la sagra delle nomine si ripete tanto spesso perché la durata nella carica dei nominati è quasi sempre molto breve, per lo più tre anni, un termine che rende impossibile o difficilissima l’attività di manager di grandi imprese (si pensi che un colosso come l’Enel ha 72 milioni di utenze in tutto il mondo). Quarto: i criteri. Chi garantisce che le scelte non siano arbitrarie e che vengano nominate non persone all’altezza del compito, ma fedeli seguaci di questa e di quella forza politica, pronti a obbedire ai desideri dei nominanti? Colpisce, nelle scelte compiute dall’attuale governo, composto di forze politiche che invocavano trasparenza e persino vincoli di mandato, che queste non abbiano prima stabilito procedure di nomina, stabilito i criteri, fatto un bando, richiesto di rendere pubblici i curricula, formato una commissione indipendente, motivato la decisione. Insomma, a prescindere dalle scelte compiute, in taluni casi di sicura qualità tecnica vista la provenienza interna all’azienda, non si è usciti da una procedura opaca. Per fare solo un paragone, si pensi a come è stato scelto l’ultimo governatore della Banca d’Inghilterra, con un recruitment process preceduto da un bando, richieste di interessati, nomina di una commissione indipendente, esame da parte di questa dei vari candidati. Questo è un modo per procedere alla luce del sole.
In conclusione, penso che l’attuale governo abbia seguito la stessa prassi incostituzionale (la nostra Costituzione prevede solo due modi di accesso alle cariche pubbliche: elezione e concorso) che ha alimentato il distacco tra popolo e governanti e ha condotto al successo delle due forze che ne fanno parte. Queste non dovrebbero dimenticare ciò che — secondo Voltaire — disse Luigi XIV, il Re Sole (ogni volta che nomino una persona a un posto vacante faccio cento scontenti e un ingrato), e ricordare che, dopo qualche decennio, un pronipote e successore di quel re finì sulla ghigliottina.