Fonte: Corriere della Sera
di Antonio Armellini
Uno stallo prolungato sarebbe pericoloso, mentre il quadro internazionale rischia di marginalizzare l’Ue, il motore franco-tedesco non batte come prima, Cina, Russia e Stati Uniti spingono in direzioni diverse e incombono decisioni importanti (auspicabilmente, con il contributo sin qui silente dell’Italia)
La pausa pasquale non è servita molto e il clima intorno alla brexit si va facendo surreale. Theresa May ha dovuto rinunciare a sottoporre la sua bozza di accordo ad una ennesima sconfitta annunciata; la sua fronda interna vuole farla dimettere subito per affidare il gioco all’arci-brexiteer Boris Johnson, senza passare dalla tagliola di elezioni anticipate cui pensa invece, a giorni alterni, Jeremy Corbin.. Le ipotesi sul tappeto — hard brexit, secondo referendum, referendum confermativo, elezioni anticipate, backstop fra le due Irlande, mercato unico, unione doganale, formula «Norvegia», «Canada», «Ucraina» e così via — vengono rimestate in un calderone infernale da cui un’opinione pubblica frastornata, che non ha mai ben capito le reali implicazioni della brexit, non riesce a trarre un filo e chiede soprattutto che venga posta fine alla vicenda al più presto. Dimentica del fatto — che nessuno si è sin qui dato la pena di spiegare — che a meno di miracoli la saga dell’uscita dall’Ue continuerà non per mesi, ma per anni. Quelli che saranno necessari per mettere a punto l’accordo commerciale bilaterale che dovrà regolare i rapporti e che l’Ue non è sin qui mai riuscita a chiudere in meno di cinque-sette anni. Sono sempre di più quelli che si chiedono, con Donald Tusk, se Londra riuscirà a chiudere la partita per la scadenza del 31 ottobre, fissata dal Consiglio Europeo.
A meno di un’improbabile soluzione bipartisan entro il 23 maggio, anche in Gran Bretagna si dovranno tenere le elezioni per il Parlamento europeo. La prospettiva è politicamente grottesca, ma una Camera dei Comuni sempre più «tribale» (come l’ha definita il Financial Times) non riesce a districarsi dai tatticismi incrociati dettati dall’ostinazione debole di Theresa May e dagli equilibrismi contorti di Jeremy Corbin. Il tema europeo è trasversale ad entrambi i partiti, ne sconvolge gli equilibri e la prospettiva di un’intesa agita fermenti scissionisti potenzialmente devastanti. Sul piano elettorale, dove non tanto Nigel Farage (un po’ usurato nell’immagine) quanto le nuove formazioni pro- e anti-brexit nate da spezzoni dei due partiti rischiano di infliggere una lezione severa soprattutto, ma non solo, ai Tories. Ma anche in una prospettiva più lunga: in un paese sempre più de-ideologizzato c’è chi vede nella contrapposizione sul tema europeo le possibili avvisaglie di uno di quei rimescolamenti in profondità degli schieramenti politici che il Parlamento britannico conosce ogni qualche decennio. Tutto ciò mentre in Scozia prendono di nuovo piede fermenti indipendentisti che segnerebbero di fatto la fine del Regno Unito. Può stupire che dinanzi a simili prospettive il sistema politico non riesca a reagire in modo responsabile, ma qui gioca il peso della storia di un Parlamento costruito, anche fisicamente, in una logica di contrapposizione e non di compromesso per contrastare lo strapotere della Corona e non già per definire, come in quelli usciti dalla Rivoluzione francese, il recinto delle regole condivise.
Sul negoziato ha continuato a pesare una diversità di percezioni irrisolta intorno alla dimensione politica del progetto europeo. La Gran Bretagna ha visto l’Ue soprattutto come mercato, ritenendo la sua componente politica secondaria e al massimo strumentale; quando la crescita dell’integrazione ne ha reso preminente il peso i nodi sono venuti al pettine. Ha tentato sino all’ultimo di dividere il fronte avverso puntando sulle contrapposizioni interne e sottovalutando quanto per gli altri, aldilà di tutto, il dato identitario dell’appartenenza all’Ue resti preminente. I Ventisette hanno sottovalutato il carattere strutturale dell’«alterità» britannica: un paese disposto a rinunciare a garanzie e vantaggi che hanno fatto del modello sociale europeo un «unicum» senza precedenti potrebbe far trasecolare, ma il fatto che sia condiviso da fette consistenti di quel che resta della classe operaia, la dice lunga sul senso della britishness.
E ora? La coesione interna dell’Ue è uscita sin qui inaspettatamente rafforzata dalla brexit, ma si sente qualche scricchiolio e cresce l’irritazione dinanzi alla prospettiva di restare bloccati dalle pastoie di un membro che non riesce ad essere ex e sarà certo importante, ma non quanto l’urgenza per l’Unione di definire le vie del proprio futuro. Uno stallo prolungato sarebbe pericoloso, mentre il quadro internazionale rischia di marginalizzare l’Europa, il motore franco-tedesco non batte come prima, Cina, Russia e Stati Uniti spingono in direzioni diverse e incombono decisioni importanti (auspicabilmente, con il contributo sin qui silente dell’Italia). Le premesse razionali per un compromesso che eviti un no deal dal quale uscirebbero tutti perdenti ci sono, ma ci sarà razionalità politica a Londra?