In gioco l’adesione di Albania, Bosnia Erzegovina, Macedonia del Nord, Montenegro, Serbia. E non solo. Il nuovo allargamento dell’Unione cambierà radicalmente il quadro
C’ è finalmente una data, il 2030, per l’Europa del futuro, un’Europa più grande che accoglierà nella sua casa — tra gli altri — quell’Ucraina che sta facendo sventolare in ogni minuto del suo tragico tempo, nella resistenza al brutale aggressore russo, la bandiera simbolo degli ideali dei padri fondatori.
Anche se a metterla sul tavolo, quella data, è stato uno dei dirigenti dell’Ue meno affidabili nel dialogo tra le istituzioni — il presidente del Consiglio europeo Charles Michel — e anche se sono apparse fredde le reazioni della commissione di Ursula von der Leyen (il cui rapporto con l’ex premier belga è stato attraversato da numerose tensioni), la scossa può essere sicuramente salutare. È il momento di fissare una scadenza. I numeri rendono i sogni più concreti.
Ora si tratta di lavorare per evitare ritardi. Rendendosi conto della necessità di promuovere un’accelerazione dei negoziati di adesione e iniziando a spiegare alle opinioni pubbliche l’importanza della svolta di un domani non tanto lontano. L’Europa ha bisogno, soprattutto in una fase così difficile, del concorso dei suoi cittadini. Si impone uno sforzo di chiarezza e di informazione pari a quello che affiancò il lancio della moneta unica.
Ai leader dei Paesi membri spetta un compito molto impegnativo. Serve la stessa intensità con cui a Parigi, a Berlino, a Roma e a Madrid ci si è schierati con Volodimyr Zelensky in una guerra che Vladimir Putin ha scatenato anche per sconfiggere il progetto europeo.
Non dovrà inoltre mancare il coraggio di combattere le resistenze di ogni tipo, mettendo sperabilmente da parte i legami nelle famiglie politiche, spesso contraddittori anche sul piano degli interessi nazionali e collettivi.
Certo, alle porte dell’Unione non bussa solo l’Ucraina, per la quale forse sarebbe stata opportuna una dose speciale di inventiva in grado di accorciare i tempi dell’attesa, ferma restando l’esigenza di completare le riforme e le leggi, come quelle contro la corruzione, che allineino il Paese agli standard europei. Non è un caso, tra l’altro, che la sua richiesta formale di adesione sia stata formulata quattro giorni dopo l’avvio dell’operazione militare speciale del Cremlino. Sono poi pronte cinque nazioni dei Balcani occidentali: Albania, Bosnia Erzegovina, Macedonia del Nord, Montenegro, Serbia. C’è la Turchia, anche se il suo percorso, diverso, è per ora sostanzialmente bloccato. A Kiev si è unita la Moldavia, senza dimenticare che, da parte loro, Georgia e Kosovo sono ritenuti candidati potenziali. Può maturare una vera rivoluzione.
Sì, l’ottavo allargamento nella storia dell’Unione (sono passati dieci anni dall’ultimo ingresso, quello della Croazia) cambierà radicalmente lo scenario che conosciamo ed è destinato a trasformare l’Europa in qualcosa di profondamento diverso, recuperando quella forza di attrazione originata da un modello che, se prima era vincente, oggi è soprattutto necessario. Pensiamo ancora una volta alla voglia di libertà del popolo ucraino. Più in generale, in un continente dove riappaiono pericolose divisioni e sono sempre possibili strappi, la parola d’ordine è una sola: integrazione. È questa la strada da percorrere.
Un’Unione più grande rende obbligata una riflessione sulle riforme che permettano il suo funzionamento. Le regole non possono essere quelle di prima. Ma già da adesso (nonostante ci sia chi, come Michel, ritiene che abolire totalmente l’unanimità vorrebbe dire «gettare il bambino insieme all’acqua sporca») è sempre più all’ordine del giorno l’opportunità di introdurre il voto a maggioranza qualificata anche su questioni riguardanti la politica estera e sicurezza. È una svolta indispensabile per evitare che l’Europa, oggi troppo debole, rimanga paralizzata in un’epoca in cui è sempre più necessaria la sua presenza attiva sulla scena internazionale.
Crescere vuol dire anche diventare responsabili. Nessuno vuole che i negoziati di adesione non siano seri, attenti, circostanziati. Devono svolgersi individuando la strategicità dell’obiettivo finale, senza lasciare spazio a veti o sabotaggi. Anzi, le trattative possono dare un senso complessivo di condivisione e inviare un segnale eloquente anche all’interno della stessa Unione, tenendo ben presente che i Paesi candidati si sono impegnati a rispettare i principi dei Trattati sul piano della difesa dei diritti. Non lo devono fare però soltanto loro.