I ministri finanziari cercano l’accordo sul Patto di stabilità. L’area euro ora non può permettersi di dividersi
Forse perché il momento più buio è sempre prima dell’alba, il negoziato sulle regole europee di bilancio oggi sembra entrato in un indecifrabile labirinto. Eppure, almeno in teoria, il tempo sta per scadere: giovedì i ministri finanziari dell’Unione europea si incontrano a Bruxelles per una cena che potrebbe protrarsi tutta la notte; venerdì dovrebbero presentare un accordo che ridisegna l’infrastruttura della seconda moneta di riserva del pianeta. Intanto, fuori dal palazzo nella capitale belga, la zona euro si trascina sull’orlo della recessione, due guerre infuriano ai confini dell’Europa, mentre gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, la Russia, Taiwan e la stessa Unione europea stanno entrando in campagne elettorali che nei prossimi dodici mesi potrebbero trasformare gli equilibri internazionali. E non a favore di una maggiore stabilità dei rapporti fra grandi potenze. Il contesto dovrebbe consigliare ai governi europei di chiudere in fretta e ragionevolmente la partita del nuovo patto di Stabilità. L’ultimo dei lussi che l’area euro può permettersi oggi è continuare a dilaniarsi sulle regole del condominio, mentre là fuori il mondo è in tempesta.
Eppure ragionevolezza e rapidità non sempre abitano a Bruxelles, specie quando i principali governi si lasciano dominare simultaneamente da due fantasmi: fra loro, sfiducia e sospetti reciproci; dentro casa di alcuni di loro, problemi politici e contraddizioni che si trascinano da anni e si ripercuotono sui rapporti fra Paesi a Bruxelles.
In questa fase il caso più evidente riguarda la Germania. Negli anni di Angela Merkel, il ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble aveva architettato un «freno al debito» così rigido e utopico che lo stesso governo di Berlino ha iniziato a ricorrere alla finanza creativa pur di aggirarlo. Oggi la Repubblica federale vanta ben 29 veicoli di bilancio separati dai conti ufficiali pur di non far apparire in bilancio le spese che, inevitabilmente, servono a finanziare gli investimenti. La Corte costituzionale di Karlsruhe ha finito per dichiarare improprio almeno uno di questi «bilanci paralleli», costringendo il governo a far emergere nel deficit 60 miliardi di euro di fondi per la transizione verde.
A questo punto il governo tedesco aveva due strade davanti a sé. Poteva accomodarsi a regole di bilancio più adeguate a una Germania in crisi industriale e a un’epoca di forti spese per la difesa, per l’ambiente, per la tecnologia o per l’Ucraina. Oppure poteva irrigidirsi nell’idea di ricostruire il proprio profilo quale modello di probità nella finanza pubblica. Di fronte al bivio, il cancelliere socialdemocratico Olaf Scholz ha deciso di non scegliere, per non destabilizzare la sua già fragile coalizione con i Verdi e i Liberaldemocratici. Christian Lindner, ministro delle Finanze e leader del Liberaldemocratici, per motivi di politica interna ha imboccato invece la via della rigidità: crollato al 5% nei sondaggi, il suo partito rischia di uscire dal parlamento alle prossime elezioni e ha bisogno di recuperare il voto dei tedeschi più conservatori.
Queste vicende tedesche adesso stanno generando i loro effetti a cascata, a Bruxelles e sull’Italia. Con l’avvicinarsi delle scadenze per un accordo sul nuovo patto di Stabilità, Lindner infatti aggiunge sempre nuove esigenze. Prima ha chiesto una riduzione misurabile del debito pubblico di almeno un certo livello ogni anno per tutti; e gli è stata accordata. Poi ha chiesto lo stesso sul deficit; e anche quello gli è stato accordato. Quindi ha chiesto che i Paesi con il debito superiore al 90% del prodotto lordo siano obbligati a una riduzione più impegnativa del debito, dell’1,5% del Pil all’anno (mentre per gli altri il calo dovuto sarebbe solo dell’1%); neanche questa idea incontra per ora resistenze. Infine Lindner sta cercando di introdurre un ulteriore trattamento differenziale, che costringerebbe i Paesi dal debito più alto a ridurre di più anche il deficit di bilancio: fino all’1% del Pil, invece dell’1,5% che varrebbe per tutti gli altri.
Così, la visione tedesca prevede due o tre classi distinte di Paesi ai quali si applicano norme diverse. Con l’Italia in terza classe. Lindner in questo sta alzando il prezzo ogni settimana di più. Ed era ovvio dall’inizio che Italia o Francia devono comunque fare di più per risanare il debito e il deficit. Ma ormai le nuove regole europee rischiano di diventare un’architettura scalena: alla base c’è un disegno razionale proposto dalla Commissione per una seria e fluida programmazione dell’economia nel medio periodo; su di essa, si aggiunge ora una sovrastruttura che mira a regolare i dettagli minuti del comportamento dei singoli governi, in modo da legar loro le mani ad ogni passaggio. Farlo in modo differenziato per i vari Paesi — ammesso che abbia una logica finanziaria — non può che produrre frutti politicamente avvelenati.
Questa sovrastruttura è frutto della sfiducia di pochi governi — Germania, Austria, Finlandia, Svezia — soprattutto verso noi italiani. Per questo continuare a rilanciare miti sovranisti e slogan gratuiti contro l’Unione europea, come sta facendo Matteo Salvini, non può che complicare una partita già difficile. Nel sentire il vicepremier leghista, altri governi saranno tentati di stringere ancora di più le viti sull’Italia. Alla fine, un compromesso sulle regole raggiunto entro venerdì resta plausibile: basta non arrivarci essendoci legati da soli mani e piedi.