16 Settembre 2024

Una situazione sempre più insostenibile, denunciata anche da molti docenti progressisti che ha creato molto malessere anche a sinistra ed ha aperto un’autostrada ai governatori e ai parlamenti degli Stati conservatori che hanno trovato ampio consenso per le loro politiche illiberali

Tempi duri per i professori di molte accademie americane, costretti ad autocensurarsi in un clima di paura: minacciati da sinistra dalla «cancel culture» di molti studenti radicalizzati e dai docenti decisi a portare nelle aule degli atenei la loro ortodossia progressista e da destra dai politici degli Stati conservatori che impongono limiti all’insegnamento nei college pubblici (con le violazioni punibili penalmente). Mentre nelle grandi università private, costosissime e ormai divenute strutture con patrimoni di decine di miliardi di dollari, pesano sempre di più i ricchi finanziatori capaci di modificare un orientamento accademico semplicemente minacciando di ritirare il loro sostegno.
Gli scontri nei campus per la guerra a Gaza, le accuse di antisemitismo, le occupazioni in decine di atenei, gli interventi della polizia in assetto di guerra per sgomberare gli occupanti, fino all’intervento del presidente Biden a difesa della libertà di manifestare pacificamente, ma in un clima di law and order di rispetto della legalità, sono stati il detonatore di un conflitto, una guerra culturale fredda, che da tempo ha cominciato a compromettere i caratteri essenziali dell’università americana: l’indipendenza dell’insegnamento e l’assoluta libertà nella circolazione delle idee.
Vari Stati conservatori, dalla Florida al Nebraska, hanno varato leggi che vietano certi tipi di insegnamento in materia di razzismo, sesso, identità. Altri, come il Texas, hanno azzerato il sostegno ai programmi miranti all’estensione dei diritto allo studio secondo i principi DEI (diversity, equity, inclusion, non c’è bisogno di tradizione). Una norma sulla base della quale l’università texana di Austin, una delle più progressiste d’America, qualche giorno fa ha licenziato 60 dipendenti che lavoravano ai programmi di inclusione degli studenti di minoranze etniche o anche sessuali.
Ci sono, però, anche docenti che si ribellano al radicalismo degli studenti che impediscono di dare la parola ad esponenti di destra e, come si è visto nel caso delle accuse di antisemitismo mosse dai finanziatori ebrei di Columbia e altre università, è forte il peso su rettori e consigli di istituto di sostenitori munifici ed ex alunni (indipendentemente dalla fondatezza dei loro rilievi). Vincoli pesanti perché alcune accademie ormai amministrano fondi d’investimento che le fanno diventare protagoniste anche a Wall Street con gli studenti che si ribellano quando investono in società del petrolio o della difesa. E, ora, in quelle che hanno rapporti con Israele.
Basti pensare ad Harvard, proprietaria di un fondo che investe oltre 50 miliardi di dollari. Il complesso delle accademie private americane ha fondi per 840 miliardi di dollari, quasi metà del Pil italiano. Così, in campus nei quali anno dopo anno sono cresciuti in modo esponenziale i costi per spese spesso insensate come la costruzione di nuovi padiglioni, biblioteche, teatri, aree ricreative affidate agli architetti più celebri (e costosi) del mondo, si è spesso sviluppata, senza trovare argini adeguati, anche l’intolleranza per pensieri diversi da quelli dell’ortodossia di sinistra.
Una situazione sempre più insostenibile, denunciata anche da molti docenti progressisti che ha creato molto malessere anche a sinistra ed ha aperto un’autostrada ai governatori e ai parlamenti degli Stati conservatori che hanno trovato ampio consenso per le loro politiche illiberali.
Anche perché, col clima di polarizzazione della politica americana che si sta trasferendo anche nel mondo accademico, lo stesso concetto di libertà d’insegnamento è diventato molto scivoloso. Basti pensare che un altro Stato conservatore, l’Indiana, ha appena varato una legge apparentemente opposta a quella degli Stati di destra: anziché vietare certi insegnamenti, obbliga le università a promuovere la «diversità intellettuale», ponendo gli studenti davanti alla più ampia gamma di punti di vista possibile.
Principio apparentemente ecumenico dietro il quale molti docenti sospettano si celi l’intento di impedire loro di scegliere argomenti e taglio da dare ai loro corsi, fino a punirli se non mettono sullo stesso piano idee contrapposte: anche quelle che ritengono buone o cattive e perfino le teorie cospirative.
Strattonati da destra e da sinistra gli accademici che cercano di difendere i vecchi principi di equilibrio, indipendenza basata su solide basi scientifiche, non interferenza della politica e del grande capitale, cercano di reagire. Difficile in un clima, come quello di oggi, di sfiducia in tutte le istituzioni, mentre anche la scienza soffre del vento dello scetticismo. Un anno fa ad Harvard è nato il Consiglio per la difesa della libertà accademica promosso da figure come Larry Summers e Steven Pinker, al quale aderiscono ormai oltre 130 professori. Yale ed altre accademie stanno seguendo lo stesso percorso. Per ora con risultati modesti, visto il caos crescente che spacca anche il corpo docente.

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