Fonte: La Repubblica
di Ilaria Venturini
Gli ateni italiani sono chiamati a ripensare il proprio modello non soltanto per l’arrivo di 15 miliardi ma anche per rivedere investimenti sulla ricerca e il diritto allo studio. L’Italia resta al fondo della classifica europea per laureati e l’ascensore sociale non si sblocca
L’università italiana ha retto all’onda d’urto della pandemia. La sfida viene ora. E si gioca su più fronti: il ritorno nelle aule degli studenti, la tenuta (e crescita) delle immatricolazioni e dei laureati, il ripensamento più in generale della formazione, l’investimento sulla ricerca e il diritto allo studio. All’orizzonte ci sono gli oltre 15 miliardi del Piano nazionale di ripresa e resilienza: investimenti che mai l’università ha conosciuto prima, ma che non potranno risolvere tutto.
“Non ci si potrà illudere che tutto tornerà come prima, la cesura della pandemia ha segnato un prima e un dopo che dobbiamo costruire” osserva Ivano Dionigi presidente di AlmaLaurea. Il consorzio interuniversitario ha di recente fotografato la condizione occupazionale dei laureati e il loro profilo. Ma lo snodo, secondo Dionigi, sta nella “grande opportunità che ha l’università oggi di sanari le cicatrici e i buchi culturali dei ragazzi. Lo smartphone e il pigiama hanno fatto dei danni e noi ora abbiamo una responsabilità supplementare di fronte al Paese: dire alle famiglie e far capire ai ragazzi che devono tornare perchè l’università è incontro”. Lo ricordava Umberto Eco: “L’università è ancora il luogo in cui sono possibili confronti e discussioni, idee migliori per un mondo migliore, il rafforzamento e la difesa di valori fondativi universali”.
L’università e la sfida del digitale
Ferruccio Resta, presidente della Crui e rettore del Politecnico di Milano, vede l’urgenza di immaginare l’università quando la crisi sanitaria sarà terminata. “Vedo due sfide importanti. Trovare un equilibrio tra la didattica in presenza, fatta di relazione, e la valorizzazione degli strumenti digitali. E aprire il perimetro dell’offerta formativa con la contaminazione tra i saperi, tra le scienze sociali e tecniche. Un ingegnere oggi deve dare risposte a sfide sociali e problemi complessi che sempre più spesso coinvolgono anche la sfera etica delle tecnologie”.
Gli atenei statali temono la concorrenza delle università online, che sarà sempre più agguerrita, e l’ingresso dei colossi del digitale nella formazione? “Il mondo digitale – ragiona Resta – sta creando competitor, la formazione terziaria è già un business. Ma le università formano persone, prima ancora che distribuire competenze. E la formazione universitaria si ha nel confronto e nella presenza, è un percorso di crescita in cui i ragazzi escono dalla comfort zone delle scuole superiori”.
L’università e diritto allo studio
Oltre alla ripartenza del lavoro, il presidente della Crui teme che le famiglie impoverite dalla crisi rinuncino a dare un futuro ai figli sostenendoli negli studi universitari. “Noi dobbiamo combattere con forza questo fenomeno, occorre investire sul diritto allo studio e aumentare del 10% la spesa universitaria con un intervento non solo nel Fondo ordinario (Ffo), ma anche sulla crescita dei docenti per diminuire il rapporto con gli studenti nelle aule”.
Matricole e laureati
Il temuto calo delle matricole non c’è stato. L’ultimo anno, il primo dell’era Covid, ha visto un evidente incremento delle immatricolazioni (+14 mila rispetto al 2019/20). Ma ancora L’Italia sforna pochi laureati, siamo sempre penultimi in Europa, davanti alla sola Romania che tuttavia nell’ultimo anno ha incrementato il numero dei suoi laureati di un punto percentuale. Nel Rapporto Alma Laurea su 291mila laureati del 2020 emerge che nel 26% dei casi sono giovani del Sud che sono andati a studiare al Nord. Aumenta la quota di chi ha almeno un genitore laureato (dal 26,5 al 30,7%) e di chi conclude gli studi in corso (58%). Ma le disuguaglianze riguardano ancora le condizioni socio-culturali delle famiglie di provenienza, l’ascensore sociale non si sblocca.
Neolaureati, donne, giovani provenienti dal Sud. Sono le categorie su cui gli effetti della pandemia sono stati più evidenti secondo il Rapporto AlmaLaurea che ha indagato 655mila laurerati. Se infatti la crisi sanitaria non ha compromesso la formazione degli studenti universitari, ha avuto un effetto diretto sull’occupazione: a un anno dal titolo il tasso di occupazione è pari al 69% (-4,9%) tra i laureati di primo livello e al 68% (-3,6%) tra quelli di secondo livello. A pagare il prezzo più alto sono quindi i giovani neolaureati, e la situazione peggiora per le donne (gli uomini hanno il 17,8% di probabilità in più di essere occupati a un anno dalla laurea) e per chi è del Sud (al Nord +30,8% di probabilità di essere occupati a un anno dal titolo). Sui laureati a cinque anni gli effetti della pandemia sono stati, nel 2020, decisamente più contenuti rispetto ai neolaureati: il tasso di occupazione è pari all’88,1% per i laureati triennali e all’87,7% per i laureati magistrali.
La laurea conviene?
All’aumentare del livello del titolo di studio posseduto diminuisce il rischio di restare disoccupati. Secondo l’Istat, nel 2020 il tasso di occupazione della fascia d’età 20-64 è pari al 78,0% tra i laureati, rispetto al 65,1% di chi è in possesso di un diploma. Inoltre, la documentazione più recente Oecd evidenzia che, nel 2018, un laureato guadagnava il 37% in più rispetto ad un diplomato.
Le lauree che danno più lavoro
Informatica e tecnologie (Ict) balzano in testa: il tasso di occupazione a cinque anni dalla laurea è del 97%; segueno i percorsi in Ingegneria industriale e dell’informazione (95%), le magistrali nel settore economico, in ingegneria civile e architettura (91%). In fondo le biennali in ambito letterario e umanistico (77,8%) e in arte e design (76, 6). La pandemia ha fatto crescere il lavoro nel settore medico: +35% per le lauree sanitarie e +17% per Medicina. “Ma con la riforma della pubblica amministrazione e la ripartenza dei concorsi – spiega Dionigi – anche i laureati in Giurisprudenza saranno meno penalizzati”.