Fonte: Corriere della Sera
di Antonio Polito
Da alleati per caso, i due partner di governo sono diventati avversari per vocazione
Vabbè che la famiglia è sacra. Ma un governo con due politiche della famiglia è un po’ troppo. Una è del ministro leghista Fontana, che sta faticosamente tentando di attaccare un pacchetto di emendamenti al treno del decreto crescita. L’altra è del vicepremier Di Maio, che ha proposto un suo decreto legge appena bloccato dal ministro Tria perché senza copertura. Quello che sta succedendo nelle ore finali della campagna elettorale riassume alla perfezione il buco nero in cui è sparito il governo Conte: uno più uno non fa più due, ma zero.
La logica del contratto prevedeva, spericolatamente, che programmi molto diversi, spesso divergenti, talvolta alternativi, potessero sommarsi senza integrarsi. Tot miliardi di reddito di cittadinanza a me, tot di quota cento a te, e amici come prima. Ma il contratto ha ballato una sola estate. Sufficiente appena a mettere nei guai i conti pubblici, inconsapevoli della grande frenata dell’economia che stava arrivando. Ciò che per i primi mesi si è sommato, ha così cominciato a elidersi. Ciò che piaceva a uno, danneggiava l’altro. Quando uno saliva nei sondaggi, l’altro scendeva. Da alleati per caso, i due partner di governo sono diventati avversari per vocazione.
Il risultato è stato appena certificato con timbro ufficiale da Giancarlo Giorgetti: il governo è paralizzato, nel caos, siamo rimasti alle varie ed eventuali. In poche parole: è finita, fino a prova contraria. E se lo dice lui, che di mestiere fa il segretario del Consiglio dei ministri e ne verbalizza le riunioni, gli si può credere. In questa lunga discesa agli inferi si sono rovinati anche i rapporti personali, più difficili da ricucire di quelli politici. Si sapeva già che Di Maio e Salvini non si parlavano più, nemmeno per telefono. Ora abbiamo scoperto che Conte e Giorgetti si detestano cordialmente, come neanche Gentiloni e Boschi ai tempi loro: Palazzo Chigi Uno e Palazzo Chigi Due. Conte si offende perché Giorgetti dice che non è imparziale. Ma il presidente del Consiglio non fa il guardalinee, dovrebbe essere il capitano della squadra. Il problema è che la squadra non c’è più: all’ultima convocazione, Giorgetti non si è neanche presentato.
e tutto questo fosse il risultato di una lucida strategia tesa ad andare al voto in ottobre, ci sarebbe almeno una logica. Ma così non è: sembra piuttosto un incespicare giorno dopo giorno verso l’inevitabile baratro. Chi l’ha detto infatti che le Europee scioglieranno i nodi? E come potrebbero? Perché il paradosso della situazione è che non sembra esserci alternativa. In Parlamento non di sicuro, e forse nemmeno nel Paese. Se poi Salvini pagherà la sua corsa a destra con un successo inferiore alle attese, e Di Maio coronerà la sua corsa a sinistra con un insuccesso minore del temuto, allora sarebbe anche più complicato giocare a rischiatutto, tornando alle urne in autunno. Il governo potrebbe durare perché non c’è altro da fare. Ma quanto può reggere un Paese con i guai dell’Italia di oggi senza un esecutivo degno di questo nome? E come fronteggerebbe un cigno nero, o anche il più usuale volo dello spread?
I due partner di governo sono i responsabili della situazione attuale. Forse non dell’andamento dell’economia, che non si decide per decreto, né nel bene né nel male; ma dei conti e del deficit certamente sì. Spetterebbe dunque a loro tirarcene fuori, Dio solo sa come, con la legge di Bilancio di fine anno. Difficilmente troveranno qualcuno che accetti di farlo al posto loro, a Roma come a Bruxelles. Nel sabato di silenzio elettorale, i due capi della maggioranza dovrebbero dunque davvero prendersi una pausa di riflessione e chiedersi se ne vale la pena: se sanno darsi una regolata o se l’esperimento è da considerarsi chiuso. Verrebbe da dire: salite a bordo, con quel che segue; ma solo se siete in grado di prendere il timone. Perché, al momento, «barca senza nocchiere» siamo, «e in gran tempesta».