19 Settembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Alberto Mingandri

Le chiusure prolungate stanno dando un colpo a molti settori che si ritroveranno in difficoltà ma la risposta non può essere soltanto quella di erogare sussidi


Le crisi coincidono con un allargamento del perimetro dello Stato. Nel Novecento, è sempre andata così: la crescita dei pubblici poteri, e della spesa pubblica, non è lineare, ma passa per delle svolte, in corrispondenza di momenti drammatici. È allora che attorno alla decisione di «fare qualcosa» si crea un consenso ampio. Il problema è quello che succede dopo.
Se confrontiamo la spesa pubblica di oggi con quella di inizio Novecento, non osserviamo soltanto che essa è cresciuta: da circa il 15% del prodotto (1913) a oltre il 57% (2020). Lo Stato non si limita a spendere di più: fa anche molte più cose e in alcuni casi si tratta di cose che facevano o potrebbero fare imprese e cittadini.
È difficile tornare indietro. Ci sta bene il rapporto fra Stato e mercato, fra pubblico e privato, che erediteremo dopo il Covid? Sembrerebbe di sì, dal momento che il tema non è entrato neanche di striscio nell’agenda politica. Lega e Pd, destra e sinistra, al massimo si disputano la paternità di nuovi «ristori». Con questo termine indichiamo quei sussidi che hanno una funzione quasi risarcitoria: lo Stato, che impedisce alle attività economiche di rimanere aperte, compensa un po’ del reddito perduto. Quando si fa un incidente, è utile avere un’assicurazione: ma se l’indennizzo può compensare le perdite, non restituisce quello che si è perduto. Le relazioni con la clientela, le cose che si sarebbero apprese e non sono state imparate nel periodo di chiusura, le risorse acquisite e non utilizzate, sono perse. Il sussidio alimenta il reddito delle persone e non le loro attività.
La differenza è cruciale: non è detto che, finito il sussidio, le attività riaprano. Il che rende più probabile che i percettori del sussidio si organizzino in qualche modo per chiedere alla politica di mantenerlo.
Purtroppo la società non è un laboratorio nel quale si possano fare esperimenti, verificando il variare di un certo parametro mentre le condizioni di contorno vengono mantenute inalterate. Ogni intervento ha conseguenze che vanno oltre le intenzioni di chi lo ha promosso. In Italia lo sappiamo bene, come pure sappiamo che nulla è stabile quanto il provvisorio. Questo vale per iniziative piccole e grandi. All’inizio del Novecento pareva un’ottima cosa combattere la malaria attraverso il «chinino di Stato», venduto a prezzo regolato. Una autentica crisi sanitaria, quale era quella malarica, esigeva risposte forti. Il chinino di Stato ebbe però efficacia assai diversa in diversi territori, nel Meridione il prezzo amministrato finì per alimentare un mercato «parallelo», in tutto il Paese servì soprattutto per rafforzare le tabaccherie come rete di distribuzione. Tant’è che il monopolio sopravvisse alla lotta alla malaria. L’Efim nacque negli anni Sessanta, in larga misura per gestire la Breda, di cui lo Stato aveva finanziato la riconversione post-bellica e da creditore se ne trovò proprietario. La guerra, che è la crisi per antonomasia, aveva alimentato l’azienda ma essa non riuscì poi a trovare un percorso autonomo. Col tempo l’Efim divenne una sorta di lazzaretto della manifattura italiana, in pancia al quale finirono aziende decotte, e ci fu bisogno di un’altra crisi, quella del 1992, per convincere lo Stato a metterlo in liquidazione. Forse ci fa venire in mente Alitalia: ne eravamo usciti, poi lo Stato ci mise di nuovo un piedino tramite le Poste, quindi ne siamo diventati creditori col prestito-ponte e, ora, i contribuenti saranno i proprietari della sua nuova incarnazione.
Sono solo tre esempi. Da una parte, ci sono sempre uomini politici che hanno l’ambizione di risolvere un problema. Dall’altra, un’opinione pubblica che li sostiene. La pandemia si è sviluppata in un contesto fortemente favorevole all’intervento pubblico. Dalla crisi del debito europeo abbiamo tratto la lezione che qualsiasi livello di spesa possa essere finanziato e sorretto dall’azione delle banche centrali.

I problemi del 2021 sono però molto diversi da quelli del 2011. Le chiusure prolungate stanno dando un colpo ferale a interi settori della nostra economia. L’unica risposta politica è l’erogazione di un sussidio, nel consenso generale. Alla «riapertura», quando avverrà, ci troveremo con uno Stato più pesante e un’economia che dipende ancora di più da esso. Questo per i partiti significa avere più potere da gestire e si capisce che la prospettiva li alletti. Un conto è sostenere gli aumenti di spesa pubblica mentre si cresce, altra cosa farlo quando da molto tempo non si cresce più. Rischiamo che il pubblico impiego diventi pressoché l’unico serbatoio di opportunità. I sentimenti ideologici prevalenti, in Italia ma più in generale in Europa, fanno sì che non si discuta nemmeno di questo rischio. Ma attenzione: gli esperimenti sociali sfuggono ai loro stessi promotori.

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