Fonte: Corriere della Sera
di Massimo Gaggi
Non solo i numeri nazionali (che significano poco): anche negli Stati chiave il presidente continua a perdere terreno rispetto a Joe Biden
La campagna di Donald Trump sta spendendo molto per sostenere la candidatura del presidente in Ohio, uno Stato vinto nel 2016 da Trump su Hillary Clinton con un margine ampio, l’8 per cento. E anche in Arizona, un altro Stato conservatore la cui conquista fino a qualche tempo fa era data per scontata dagli strateghi del Grand Old Party. Giorno dopo giorno i sondaggi nazionali proiettano un’immagine di crescente impopolarità di The Donald: quello di Real Clear Politics dà Biden avanti del 7,8%, mentre la rilevazione della Monmouth University fotografa un distacco di ben 11 punti.
Numeri nazionali che, come abbiamo imparato nel 2016, significano poco: mancano ancora cinque mesi al voto e Trump ha indubbie capacità mediatiche mentre, per come è costruito il sistema americano del collegio elettorale, il presidente può essere riconfermato anche perdendo il voto popolare: gli basta prevalere nei collegi rurali e nel Sud. Nel 2016 vinse pur avendo avuto tre milioni di voti meno di Hillary Clinton. Potrebbe accadere di nuovo: è stato calcolato che potrebbe farcela anche con 6-7 milioni di voti meno di Biden.
Eppure negli ultimi giorni i timori dei repubblicani sono diventati terrore: non si tratta più solo di poll nazionali più o meno attendibili. Arrivano segnali molto negativi anche dagli Stati-chiave per l’esito delle presidenziali — Pennsylvania, Michigan, Wisconsin, Florida — mentre ora appaiono in bilico anche Stati che dovrebbero essere nella colonna di quelli sicuri per i repubblicani: i sondaggi della Fox, la rete conservatrice, danno Trump e Biden alla pari in Texas e in Ohio, mentre il presidente è indietro in Arizona, oltre che in Wisconsin. E i frequenti viaggi del vicepresidente Mike Pence in Georgia indicano che anche il controllo di questo Stato del Sud sta diventando, per Trump, problematico.
Non sono sole le presidenziali ad allarmare il fronte conservatore: a preoccuparlo, forse ancora di più, è la prospettiva di perdere il controllo del Senato dopo aver ceduto due anni fa ai democratici quello della Camera. Fino a qualche settimana fa questa sembrava una prospettiva remota: per farcela i democratici dovrebbero mantenere tutti i loro senatori in scadenza e strapparne quattro o cinque ai repubblicani. Ma ora diversi collegi senatoriali dei conservatori sono traballanti: tra essi proprio quello della Georgia dove Kelly Loeffler è stata indagata per aver liquidato poco prima della crisi del coronavirus i titoli azionari in suo possesso appena ricevuto dai servizi segreti un rapporto riservato sui gravi danni economici che la pandemia stava per produrre.
A Capodanno Trump sembrava avere la rielezione in tasca, ma da allora tutto ha congiurato contro di lui: lo tsunami del Covid-19 (non colpa sua ma gestito malamente dal suo governo), il collasso dell’economia, i disordini razziali. Mancano ancora 150 giorni al voto e con la riapertura dell’America l’economia comincerà a riprendersi, ma il processo sarà molto lento: arriveremo alle urne con una disoccupazione ancora nettamente superiore al 10%. Nessuno ce l’ha mai fatta con numeri simili, sostengono analisti come Ian Bremmer, ma Trump è un candidato anomalo, con una strategia anomala.
I suoi strateghi elettorali avevano cercato di spingerlo su una linea più rassicurante per conquistare anche fasce di indipendenti e allargare la penetrazione nei sobborghi ricchi delle metropoli. Il genero Jared Kushner gli aveva addirittura suggerito una linea morbida con gli afroamericani per conquistare uno spicchio del voto nero (venendo per questo aspramente criticato dalla Fox). La sua reazione ai disordini razziali chiude queste strade. Trump torna ai suoi istinti: dividere, alimentare conflitti, giocare sulla paura. Blinda il suo elettorato tradizionale, minoritario ma compatto, sperando che la sinistra, oggi maggioranza, si disperda tra le sue diverse anime.
«“Legge e ordine” è una linea che può funzionare anche oggi, come con Nixon mezzo secolo fa» sostiene il politologo Larry Sabato. «No, nel 1968 Nixon era rassicurante, il moderato tra il progressista Humphrey e il razzista Wallace: somigliava a Biden, non a Trump», replica David Frum che è stato consigliere e speechwriter di George Bush alla Casa Bianca.
Trump, secondo le rilevazioni, sta perdendo terreno in tutte le fasce sociali: dai bianchi laureati alle donne, ai pensionati (fan del trumpismo, ma ora spaventati dalla sua linea dura sul coronavirus). Decisivi potrebbero essere i giovani degli Stati in bilico. In genere contestano ma non votano: si mobiliteranno, stavolta, per il vecchio e noioso Biden?