L’obiettivo degli Stati Uniti è porre limiti alla partnership di Pechino con Mosca
L’ordine mondiale uscito dalla conferenza di Yalta, nel 1945, fosse alterato da un’integrazione della Cina nel blocco sovietico. La guerra scatenata da Putin che obbliga gli Stati Uniti a concentrarsi di nuovo sull’Europa può spingere Biden a scommettere buona parte del suo (non abbondante) capitale politico in un nuovo dialogo (comunque da «pace fredda») col gigante asiatico, per evitare che la «partnership senza limiti» con la Russia annunciata da Xi Jinping prenda realmente corpo?
Ma, soprattutto, la Cina sceglierà di mettersi alla testa di un blocco eurasiatico del quale avrà la leadership nel quale, però, una Russia fornitrice di energia e deterrente bellico, potrebbe trascinarla in avventure sconsiderate? Sosterrà davvero la guerra di Putin, o preferirà continuare a basare il suo sviluppo sui rapporti commerciali con Europa e Stati Uniti, consapevole che è grazie a questo che è diventata una superpotenza planetaria con un’economia vasta almeno quanto quella americana e che il tempo gioca a suo favore?
Ruota attorno a queste domande il confronto tra Washington e Pechino che ieri ha vissuto un momento pubblico importante con l’incontro romano dell’Hilton tra i supersherpa della politica estera delle due potenze (il consigliere per la Sicurezza Nazionale di Biden, Jake Sullivan, e Yang Jiechi, responsabile per la politica estera del Comitato centrale dei comunisti cinesi), ma che sicuramente è già in corso da tempo dietro le quinte: lo ha fatto intendere domenica lo stesso Sullivan quando ha parlato di moniti a non sostenere la Russia nel conflitto già inviati a Pechino in modo «privato e riservato», per non alzare una tensione già alta rendendo pubbliche le inevitabili minacce di rappresaglie commerciali.
Il quadro, inutile nasconderlo, è cupo e non solo per il rischio che la guerra in Ucraina inneschi un conflitto più vasto e per le conseguenze economiche pesanti che ci saranno, comunque, per tutti, Europa e Stati Uniti compresi. L’aggressione di Putin ha rinsaldato i legami nel mondo occidentale e ha ridato lustro ai valori liberaldemocratici, ma ha anche esposto un’America che già fatica a tenere testa alla Cina, a una drammatica riapertura del fronte europeo. Il presidente russo ha la pretesa anacronistica di riportare il mondo nel Novecento, ma nemmeno Washington, e noi, suoi alleati nella Nato, possiamo illuderci che l’America sia ancora quella della metà del secolo scorso: quello era un Paese che poteva dettare le regole non solo per la sua forza militare e tecnologica ma anche perché aveva un’economia quattro volte più grande quella del suo avversario più pericoloso.
Quella supremazia economica non c’è più, ma è rimasta la supremazia tecnologica (anche se la Cina è ormai a un passo) e la forza d’attrazione della vita in Paesi liberi, democratici, che rispettano i diritti dei cittadini. Su questo abbiamo costruito, nel tempo, tre postulati: la Cina destinata a divenire anch’essa libera e democratica con la diffusione del benessere capitalista; la Russia che, dopo la caduta dell’impero sovietico, si sarebbe comportata come la Germania dopo la Seconda guerra mondiale; e poi, con l’ingresso nell’era digitale, la convinzione che i rapporti di forza tra le nazioni sarebbero stati plasmati dalla supremazia tecnologica trasferendo il rischio di conflitti dall’«equilibrio del terrore» nucleare all’area della cyberwar con conseguente trasferimento nei musei dei carri armati e, in prospettiva, anche di missili balistici e bombe atomiche.
Il primo postulato si è dissolto da tempo. Putin ha lavorato alacremente per capovolgere anche il secondo e oggi si comporta come la Germania prima, non dopo, la Seconda guerra mondiale. Il postulato della supremazia tecnologica probabilmente rimane valido, ma è stato vissuto in Occidente con eccessivo autocompiacimento: guardia abbassata, opinioni pubbliche non più interessate ai rapporti di forza, governi europei poco disposti a investire nella difesa, Stati Uniti che ora scoprono di essere rimasti indietro rispetto a Cina e Russia nella tecnologia dei missili ipersonici.
Il cambio di paradigma è apparso in modo improvviso e drammatico un anno fa quando, durante un vertice in Alaska, proprio Jiechi e Sullivan si scontrarono con una violenza dialettica senza precedenti davanti alle telecamere. Da allora gli Stati Uniti cercano di rafforzare la loro strategia di contenimento della Cina, dal Giappone all’India passando per i sommergibili nucleari all’Australia, ma cercano anche di riprendere un dialogo pragmatico con Pechino: competizione dura ma in un quadro di interessi e regole comuni.
Cosa farà a questo punto la Cina? Xi non pensa certo di abbandonare Putin, ma se lo aiuterà con forza nell’impegno bellico la rottura con Usa ed Europa rischia di diventare irreparabile. La Cina può anche pensare, in prospettiva, di rimpiazzare coi mercati emergenti — dal Brasile al Golfo, dalla Turchia all’India, oltre alla Russia — quelli di Europa e Usa: aree in declino demografico, oltre che economico. Ma oggi l’export verso Ue e Usa rimane vitale per la Cina, come vitale è anche un sistema monetario e finanziario tuttora dominato da Washington e da Wall Street. Non avendo, come Biden, le elezioni di mid term che incombono, Xi, si dice, guarda lontano. Ma in realtà anche lui ha bisogno di consenso interno e ha scadenze politiche importanti: deve sostenere un’economia già colpita pesantemente dall’onda di ritorno del Covid-19.